Ci saranno scontri a Cremona? La domanda era oziosa già domenica scorsa, poche ore dopo l’aggressione di alcuni fascisti di CasaPound al centro sociale Dordoni. Emilio Visigalli, 49 anni, è rimasto per terra. Svenuto, lo hanno preso a calci in faccia e in testa. Sta ancora molto male. La prognosi è tutt’altro che rassicurante, ogni giorno subentrano complicazioni. E ieri pomeriggio, sul piazzale davanti allo stadio – dove ha sede il centro sociale cremonese – bastava guardarsi attorno per capire come sarebbe andata a finire. Facce tirate.

 

Sarebbe andata a sbattere contro un muro di polizia in fondo a via Trento e Trieste. Il corteo era stato programmato per sfilare nelle vie del centro, in realtà era chiaro che non ci sarebbe mai arrivato: al di là di quel muro di poliziotti c’è la sede di CasaPound. Ma il corteo chiedeva la chiusura di “tutti” i covi fascisti. E la portata davvero nazionale della manifestazione, al di là dell’agguato fascista di Cremona, dovrebbe dar da pensare a tutti gli antifascisti che pur non essendo abituati a fare a mazzate con la polizia si stanno accorgendo che in Italia è già successo qualcosa e che oggi l’insidia fascista non è più solo la preoccupazione astratta di pochi militanti.

 

La sede di CasaPound di via Geromini è un obiettivo simbolico, gira addirittura voce che l’abbiano messa in vendita. E’ lì che tutti sapevano, e lo sapeva anche la polizia, che il corteo si sarebbe sfilacciato per lasciare soli in testa tutti quelli che a Cremona erano venuti per fare gli scontri. Chi ha caricato chi, poco importa. E’ la retorica della zona rossa, può non piacere, può non portare a nulla, ma così è. La disposizione del muro di poliziotti del resto si prestava alla più logica e sbrigativa delle spiegazioni: proteggono la sede di CasaPound.

 

Dalle 17 alle 19 ci sono stati almeno cinque attacchi molto duri. Già al primo, la polizia ha affumicato mezzo corteo con un fitto lancio di lacrimogeni. Le via laterali sgombre, senza poliziotti a fare da tappo. La sensazione è che non c’era voglia di farsi del male, anche se Cremona non ha mai vissuto una giornata così tesa. Una città in silenzio. Mezzi pubblici sospesi fino alla fine del servizio. Saracinesche abbassate. Impossibile anche bersi un caffè.

 

Alla fine, tra un’incursione e l’altra, sono state spaccate anche le vetrine di alcune banche (in via Dante). Danni collaterali messi in conto, perché la rabbia era tanta. C’è sempre una disparità di trattamento nella strana storia di questo paese, un fatto che si ripete troppo spesso e che alimenta le solite dietrologie: per i fatti di Cremona, una piccola realtà di provincia dove tutti conoscono tutti, sono stati indagati quattro militanti del centro sociale e quattro di CasaPound. E dopo una settimana non c’è nemmeno un fermo, anche se un uomo sta ancora lottando per la vita.

“La risposta sarà durissima”, ripetevano tutti lungo il tratto di strada che presto si sarebbe trasformato in un imbuto di fumo irrespirabile, col silenzio rotto dalle bombe carta e dalle bottiglie rotte. Gli antifascisti militanti per questo sono arrivati davvero da tutta Italia. Dal sud, da Roma, da tutta la Lombardia, molte le presenze da Milano, c’erano i torinesi. Perché questa volta hanno quasi ammazzato uno di botte. Ma sarebbe sbagliato liquidare questo corteo come la solita prova di forza di pochi antagonisti residuali che vanno a sbattere contro la polizia.

 

In piazza c’erano anche ragazzini alla loro prima “uscita”, che i fascisti possono ammazzare non l’hanno ancora letto nemmeno sui libri di scuola, ma a scuola se ne parla, i nuovi fascisti ci sono, sono aggressivi, perché fanno politica. E c’erano i Cobas, ma composti, lavoratori, e anche l’Usb, molte persone con le bandiere del Prc, perfino uno striscione dell’Anpi di Milano (zona 8). E famiglie di sinistra, sguardi determinati ma non aggressivi, “gente normale” insomma.

 

E’ anche questa la notizia di una giornata che si annunciava una esclusiva per i “duri e puri”. Durante gli scontri, centinaia di persone tergiversano nelle retrovie, sparpagliate, con le bandiere arrotolate e lo sguardo preoccupato rivolto alla testa del corteo persa nel fumo dei lacrimogeni. Nessuno si è spaventato però, nessuno ha lasciato precipitosamente la piazza. Hanno aspettato, si sono messi a discutere, era chiaro che la loro manifestazione era già finita.

 

Sono queste presenze tutt’altro che scontate (e peccato per chi non ha saputo cogliere l’occasione) a dare un po’ di conforto a pochi mesi dal 70esimo della Liberazione, una data che mai come quest’anno avrebbe bisogno di una bella rispolverata. E non solo in Italia. Perché se l’antifascismo non torna ad essere un valore condiviso e coinvolgente nella quotidianità delle relazioni sociali, allora non resterà altro da fare che radunarsi, ogni tanto, per manifestare una rabbia sacrosanta. Ma forse non basterà.