Sabato mattina, dopo colazione, Emma e Guido, che ora hanno 6 anni, si piazzano davanti al computer a guardare le foto della propria nascita. E mentre Moreno mi sussurra con un sorriso dolce «è l’ennesima volta», sullo schermo appaiono il pancione di Becky, e poi loro stessi minuscoli tra le braccia dei due papà.

Cinquantenni fiorentini, Paolo e Moreno, dirigente della Regione Toscana l’uno, impiegato all’Ataf, l’azienda cittadina dei trasporti, l’altro, hanno appena festeggiato i loro vent’anni assieme. Quando si erano incontrati, nell’ormai lontano 1995, era stato un colpo di fulmine, dopo nemmeno un mese erano già andati a convivere nella casa di Paolo. Una coppia gay, come tante, e come tante con un pensiero, un desiderio impossibile. «È difficile dire quando abbiamo cominciato a pensare che ci sarebbe piaciuto metter su famiglia- dice Moreno -. È un pensiero che ti cresce dentro pian piano, ma che ogni volta cancelli, perché sai che non si può». Paolo ricorda un periodo in cui, per andare al lavoro, passava davanti a una scuola materna, guardava i genitori che accompagnavano I loro bambini. «Era un’esperienza che a me sarebbe stata preclusa per sempre – racconta ora -. E mi prendeva alla pancia, sentivo uno struggimento dentro. Sapevo che anche l’adozione era impensabile». E quando io chiedo «Ma se per paradosso fosse stato possibile?», lui risponde brusco «Ma che paradosso! Se fossimo un paese civile, sarebbe stata la strada che avrei sicuramente preferito. Io non penso che il legame genetico sia così fondamentale per costruire una famiglia. Essere genitore, e adesso lo so ancor meglio di prima, vuol dire cura, affetto, è un rapporto che può prescindere dal tuo Dna».

E in effetti, una decina d’anni fa, Paolo e Moreno avevano pensato anche all’ipotesi dell’affido. Per sei mesi avevano frequentato l’apposito corso per essere iscritti negli elenchi del Comune. Come coppia, anche se sulla carta c’era solo il nome di uno di loro, e comunque sarebbe stato un affido temporaneo, di quelli che per legge non possono durare più di due anni. Ma poi nessuno si è mai fatto vivo, e anche questa strada si è chiusa.
Il pensiero però era sempre lì, così hanno cominciato a frequentare chi partecipava all’associazione Famiglia Arcobaleno. «In realtà le coppie di maschi erano pochissime – racconta Paolo -. Poi nella mailing list abbiamo trovato questi due triestini, siamo andati fin su a trovarli, la loro bambina allora aveva 3 anni. Per la prima volta abbiano toccato con mano la concretezza di una coppia di padri. E abbiamo scoperto che in realtà, dopo tanto parlare e tra tanti dubbi, eravamo già pronti».

Così quando sono stati invitati al matrimonio di due amici, in Canada, dove i gay di tutto il mondo possono sposarsi anche se non sono residenti lì, hanno deciso. Non solo si sono sposati anche loro, ma hanno cercato un’agenzia e dopo le nozze da Montreal sono andati a Toronto. «Così abbiamo concepito dopo il matrimonio» ridacchia Moreno. Il primo incontro è stato con la donatrice, ovvero la donna che avrebbe fornito gli ovuli da fecondare, che spesso rimane anonima, ma che loro invece hanno scelto di conoscere. «Fin dall’inizio non volevamo che ci fosse nessuna zona d’ombra che i bambini, una volta cresciuti, non potessero esplorare – mi spiega Paolo -. Per questo abbiamo voluto parlarle, essere sicuri che lei, in un futuro, fosse disponibile a conoscerli». Poi è arrivata Becky.

Il Canada è un piccolo paradiso per i gay di tutto il mondo che desiderino un figlio. La legge è semplice e chiara, è la donna che darà la vita a scegliere la coppia per cui lo farà, e per amore, visto che le è vietato ricevere un compenso in denaro. Già prima del parto comunque con Becky, e con il marito di lei, Nathan, si è creato un legame, un’amicizia. Proseguita, nel mese in cui la nuova famigliola è rimasta là, e che dura ancora. «I primi mesi ci sentivamo, tra Skype e mail, continuamente – è sempre Paolo che parla -. Adesso che viene il Natale li chiameremo di sicuro, assieme ai bambini». Una storia comune a quella di altre coppie gay, che mostrano in realtà un grande rispetto, e perché no, riconoscenza, per colei a cui però, almeno per ora, non sanno dare un nome. «Per noi e lei è molto di più di una ‘portatrice’, – sottolinea Moreno -. E se devo dire la verità, questo è un termine che non ci piace, che usiamo il meno possibile. Ai bambini diciamo che è «la signora che vi ha portato in pancia», ma poi per tutti noi lei è semplicemente Becky». Poi, visto che io storco il naso comunque, aggiunge «la verità è che non ci sono ancora le parole per definire questa nuova esperienza. Quanti anni saranno che esiste, una trentina? Non sono poi così tanti perché la società e il nostro linguaggio la elaborino per davvero». E trovi un nome che convinca tutti. Becky ad esempio, quando era incinta, a chi le chiedeva della sua gravidanza, diceva «non sono figli miei, io sono la casa, la dimora dei bambini».

Ma spesso le parole non servono più di tanto, come si è scoperto quando, a un anno e mezzo, Emma e Guido sono entrati, diciamo così in società, ovvero all’asilo nido.

Quando gli chiedo come siano stati accolti, loro quattro, dalle maestre, dalle altre famiglie e perché no dai loro amici, se ci siano stati imbarazzi o episodi sgradevoli, Paolo e Moreno non sanno rispondere. «Per noi è stato un coming out continuo – ricorda Paolo -. Ma come sia per gli altri è difficile dirlo. Non è che tu puoi entrare nella testa delle persone, se avevano dubbi, perplessità comunque non l’hanno mai esternato». All’asilo, quando si parlava di organizzare la festa del papà e quella della mamma (incubo di ogni famiglia arcobaleno) loro hanno chiesto se non si poteva invece fare “la festa dei genitori”. Le maestre sono state più che d’accordo, ma al secondo anno qualcuno, un padre, si è lamentato, voleva la sua festa del babbo. Ma non ne ha fatto una tragedia, non ne ha nemmeno parlato con Paolo e Moreno. Ed è bastato che Guido facesse amicizia con la loro bambina perché tutto si sciogliesse come neve al sole. Anzi un giorno la madre ha detto a Paolo che per lei era assurdo che in Italia non ci sia una legge per le unioni civili tra persone dello stesso sesso.

Dietro i silenzi o i pudori, del resto chi conosce i fiorentini sa quanto siano discreti e riservati sul loro privato, qualcosa si intravedeva comunque. Soprattutto all’inizio e soprattutto tra le donne. «Non che nulla sia mai emerso esplicitamente – ricorda Paolo -. Ma è vero che gli sguardi delle donne sono sempre stati un po’ diversi da quelli degli uomini. Le amiche volevano aiutarci, forse pensavano che, visto che siamo due uomini, non ce la potevamo cavare da soli…». Ma volevano anche capire il rapporto di Paolo e Moreno con Becky. «Forse volevano essere rassicurate sul fatto che non le avessimo strappato I bambini – dice con un tocco di sarcasmo Paolo -. Insomma essere sicure che la sua fosse una libera scelta». Ma in realtà nemmeno ora che i giornali si sono riempiti di titoli e interviste su quella esperienza dai troppi nomi, gestazione per altri, maternità surrogata, utero in affitto, nessuno si è spinto a chiedere di più. Forse per timore di offendere, dice ancora Paolo. O forse perché si sono abituati al fatto che in fondo la famigliola di via Monteverde, è solo una come le altre.