Per le strade di Glasgow, David Bowie punta il dito direttamente sugli elettori scozzesi sullo sfondo blu, bianco e rosso della bandiera del Regno Unito, su cui campeggia la scritta «L’Unione ha bisogno di te». Il rocker è uno dei protagonisti della campagna per il «no» al divorzio della Scozia da Londra. Ma in tutto il paese si respira l’aria della resa dei conti: sarebbero 700mila, secondo il Times, gli scozzesi contrari all’indipendenza pronti a trasferirsi verso Sud in caso di secessione.
Questa sera si sapranno già i risultati del referendum che ha diviso la nazione. Sono 4,3 milioni, inclusi per la prima volta i sedicenni, gli scozzesi chiamati alle urne per esprimersi sulla fine dell’Unione con la Gran Bretagna. Secondo i principali centri di sondaggio, i «no» supererebbero i «sì» del 4%. Per gli exit-poll di Opinium e Icm, i «no» si attesterebbero al 52 e i «sì» al 48%. Una forbice consistente rispetto all’annunciato sorpasso dei favorevoli alla secessione della vigilia, ma ancora ristretta per far tirare un sospiro di sollievo ai detrattori della spartizione dell’isola.

Ma il premier scozzese Alex Salmond ci crede. Per il leader dei nazionalisti (Snp), questo referendum è l’«opportunità della vita»: la «più straordinaria campagna politica nella storia del paese». «Sì facciamolo», ha scritto in una lettera agli scozzesi Salmon. Dall’annuncio del 2012 che il referendum per l’indipendenza si sarebbe tenuto, il politico scozzese è stato il protagonista indiscusso della campagna referendaria. Non ha ceduto contro la coalizione tricefala Tory-Labour-LibDem ma ha lanciato strali contro tutti accusando Londra di complottare con le grandi società britanniche contro le ambizioni degli scozzesi e la Bbc di informazione parziale sul referendum. Ma forse Salmond ha spinto troppo il piede sull’acceleratore dell’indipendenza, tanto da essere accusato di pressioni e intimidazioni dal rettore dell’Università St. Andrews. L’accademico aveva denunciato conseguenze negative in caso di voto favorevole all’indipendenza della Scozia.

Eppure si è aperta ieri la corsa dell’ultim’ora dei leader della campagna referendaria per il «no» che hanno lanciato argomentazioni escatologiche sui danni economici e al sistema sanitario in caso di secessione. Dopo il richiamo da parte di Cameron di «non fare a pezzi la famiglia» inglese, anche il premier conservatore si è detto preoccupato per i risultati del voto, sebbene abbia assicurato di non voler dimettersi in caso di sconfitta (un inglese su tre vorrebbe che il leader Tory lasciasse Dawning Street in caso di vittoria dei secessionisti). Non solo, dopo Ed Miliband, leader dei labouristi, è stato contestato anche il ministro LibDem, Danny Alexander, azzittito in un comizio a Glasgow. Sulle rivelazioni di possibili tagli al sistema sanitario in Scozia (Nhs), subito dopo l’annuncio della vittoria dei «sì», sono piovute le smentite degli amministratori locali, incluso il ministro della Sanità scozzese, Alex Neil. Invece, ci ha provato l’ex premier Gordon Brown a dare un po’ di vigore alla campagna per il «no» opponendo al nazionalismo di Salmond un richiamo più generale al patriottismo inglese. Eppure non convincono i promotori della secessione le promesse bypartisan dai «vasti poteri» per il parlamento scozzese alla garanzia di «condivisione delle risorse» fino all’impegno nel riconoscere autonomia alla Scozia sul finanziamento dell’Nhs.

Tanto che votare per l’indipendenza non appare più un atto di tradimento della lotta di classe neppure per i comunisti inglesi. Come argomenta l’attivista (e artista) Billy Bragg dalle colonne del Guardian, tra i favorevoli all’indipedenza ci sono «compagni» non più contenti della direzione verso cui la Gran Bretagna sta andando, divisa tra povertà e ricchezza, con la predominanza dei privilegi per chi ha avuto accesso alle costose università, con troppo pochi parlamentari della working class a rappresentare i Labour.

E così, dopo 300 anni di Unione con la Gran Bretagna, il «matrimonio di convenienza» del 1707, potrebbe chiudersi in un incredibile divorzio, aprendo la strada alle beghe del passaggio dei poteri costituzionali, politici, economici, valutari, sulla permanenza nell’Unione europea che dovrebbero essere negoziati da domani in poi. L’estensione dei poteri scozzesi si era aperta nel 1999 a seguito di un referendum sulla devolution che aveva riaperto le porte del parlamento locale. Anche se gli scozzesi rifiuteranno la secessione, il referendum di oggi aprirà la questione fondamentale della politica inglese dopo la fine del tatcherismo (che fece partire proprio dalla Scozia la contestata poll tax): la crisi di rappresentanza dei partiti tradizionali e la conseguente crescita di nazionalismi e localismi, di cui il movimento scozzese è espressione. Non solo, l’estremo liberismo di Westminster dovrà prima o poi allarmare i politici laburisti che fin qui sono rimasti sordi a qualsiasi richiesta progressista della loro stessa base elettorale.