Due monumentali volumi a cura di Piero Gelli mettono a disposizione del lettore italiano l’intero complesso degli scritti intimi di André Gide: Diario, Bompiani «I Classici della letteratura europea» (vol. I/1887-1925, vol. II/1926-1950, pp. 3097, euro 60,00 ciascuno). L’edizione si fonda su quella francese in due volumi procurata nel 1996-’97 da Éric Marty e Martine Sagaert per la «Bibliothèque de la Pléiade», riprendendone per intero l’apparato filologico, mirabile, e la fitta annotazione, con la differenza che varianti testuali e note esplicative non sono inserite in registri separati, ma si avvicendano in un unico blocco. Ho parlato di complesso degli scritti intimi perché il Diario, come il Journal cui corrisponde, incorpora molti passi esclusi sia dalla versione edita nel 1939, prima opera di un autore vivente accolta nella «Pléiade», sia da quella predisposta nel settembre 1949 per il secondo tomo e apparsa postuma nel 1954. Tuttavia la volontà ultima del diarista non è stata disattesa totalmente, perché sono stati lasciati fuori tutti i passi inediti che aveva barrato nei manoscritti con un tratto nero, o che si leggevano in fogli poi strappati; sussistono invece tutti quelli soppressi con segni, a matita o a penna, reputati meno imperativi. Martine Sagaert, curatrice del secondo volume, sostiene con sottigliezza (e un certo potere di convinzione), che le operazioni di selezione e «montaggio» cui erano stati sottoposti i materiali prelevati dal laboratorio del Journal in vista di stampe parziali, presentano caratteri tali da permettere di supporre che «il senso gidiano dell’edizione» non fosse ne varietur, ma ut varietur.

Bompiani aveva già pubblicato l’opera in tre volumi nel 1949-’54, affidando la traduzione a Renato Arienta e attingendo le note esplicative all’edizione inglese di Justin O’Brien, sorvegliata da Gide stesso (1947-’51). Il testo di Arienta è stato riveduto e completato (ottimamente) da Sergio Arecco, che ha tradotto dal francese anche l’apparato paratestuale, integrando ove opportuno le note. Il maître de l’œuvre Gelli conduce nella Prefazione (intitolata significativamente «Que reste-t-il de nos amours?») un discorso di grande finezza, che non verte solo sul Diario, ma si estende all’uomo Gide e alla sua opera, con ragguagli minuziosi sulla ricezione italiana, un tempo assai viva. Dal quadro bibliografico da lui allestito manca curiosamente l’altrettanto monumentale biografia in due volumi che Frank Lestringant ha pubblicato nel 2011-’12 (André Gide, l’inquiéteur, pp. 2687), e che è molto più della narrazione lineare di un iter vitae. Nell’opera, premiata dall’Académie Française, si svela tra l’altro tutta l’ambiguità (e la riposta malignità) del diploma di «contemporaneo capitale» conferito da André Rouveyre a Gide nel 1924.

In Francia la scrittura intima, nelle sue varie declinazioni, è sempre stata relegata in zone estreme e frontaliere della letteratura, da parte sia dei critici d’impronta tradizionale che dei «nuovi», come Roland Barthes e Gérard Genette. Il primo ha espunto con foga particolare la «nota quotidiana» dal circuito dei generi letterari, in quanto scrittura dell’immediato e del contingente (ma già Proust, nel Temps retrouvé, aveva negato qualsiasi valore estetico al Journal dei Goncourt). Gide, d’altra parte, ha molto parlato di sé come persona storica tanto in testi a dominante autobiografica dichiarata, quanto per interposti personaggi. Nella prima categoria va citato soprattutto Si le grain ne meurt (1926), libro tra i più belli del Novecento, che contiene una confessione senza veli della precoce inclinazione dello scrittore alla pederastia (nel giugno 1927 egli annota: «la giovinezza mi attrae, ancor più della bellezza»; strano a dirsi, o forse no, di Thomas Mann sono citate varie opere, ma non Der Tod in Venedig). Gli alter ego romanzeschi, per parte loro, agiscono in Paludes (1895), nell’Immoraliste (1902) e nei Faux-monnayeurs (1925).

Una complicazione ulteriore sorge dal fatto che molte pagine del Journal sono transitate, con aggiustamenti minimi, in testi di finzione, perciò «letterari» (come i Cahiers d’André Walter, 1891), mentre pagine intere di Paludes e delle Nourritures terrestres (1897), testi nominalmente di finzione, sono state immesse nel Journal. Allora bisognerebbe chiedersi se le prime sono diventate «letteratura» in virtù del nuovo contesto, riscattando la propria origine non finzionale, o se non lo hanno invece contaminato; e inversamente per le seconde. Ricordo ancora che finzioni come Paludes, Isabelle (1911) La Symphonie pastorale (1919) Les faux-monnayeurs (con un Journal des Faux-monnayeurs edito a parte), L’école des femmes (1929), Robert (1930), contengono diari intimi redatti dai personaggi, e che un’opera di critica letteraria come Nouveaux prétextes (1911) contiene 150 pagine di un «diario senza date». Dunque invano Oscar Wilde aveva esortato l’amico a non usare più l’io nei suoi scritti, con la motivazione che «in arte non esiste la prima persona» (Gide lo racconta nell’elogio funebre di Wilde, del 1902): la forma-diario è onnipresente nella sua opera, come sono costanti e perseguite le interferenze con altre forme di scrittura; e non è certo privo di rilievo che nei primi decenni di redazione il Journal, proprio in previsione di riusi nei testi di finzione, appaia molto più elaborato di quanto non sarà nel seguito.

Quello di Gide è principalmente il diario di uno scrittore, che diventa abbastanza presto un grande scrittore consapevole della propria grandezza, e che scrive «per essere riletto», com’è fatto dire narcisisticamente all’eroina eponima di Geneviève (1936). Atteggiamento che richiama quelli rimproverati a Chateaubriand (II 2265: 9 ottobre 1940), del quale sono anche replicate certe «pose», come il fastidio di essere celebre: «Ah, il tempo felice in cui non ero ascoltato! E come si parla bene finché si parla nel deserto!» (16 maggio 1936). E non è un caso, forse, se nella stessa pagina Gide rimpiange che il suo diario non sia destinato a essere un diario d’oltretomba: «Quanto più ricche le mie confidenze se fossero riuscite a rimanere postume». Benché sia un intenditore raffinato d’arte e di musica, egli guarda il mondo innanzitutto sotto specie letteraria (il 24 novembre 1905, al Louvre, ha con sé «un piccolo Montaigne» che legge a intervalli) e in ogni genere di situazione evocata lo soccorre con generosità la sua biblioteca. È il caso, esemplare, della pagina scritta il 25 dicembre 1942, dove un passo del venerato autore degli Essais gli sembra ritrarre «alla perfezione» lo stato in cui si trova la Francia. L’utile repertorio degli «amici di Gide» approntato da Gelli, con profili biografici dettagliati, comprende quasi solo nomi di scrittori e di critici. E lungo i due volumi si susseguono note di lettura, elenchi di letture fatte, citazioni in serie senza commenti (probabilmente materiali di lavoro, come quelle allineate da Benjamin nel Baudelaire del Passagen Werk), giudizi di valore, ora positivi fino all’entusiasmo (oltre che per Montaigne, il diario testimonia di amori indefettibili per Virgilio, Shakespeare, Pascal, Racine, Goethe e Baudelaire, «abile nell’affidare a parole che hanno l’aria di niente le sue verità più profondamente dolorose»), ora gelidi o aspri (Voltaire «inattuale», Marivaux «abbrutente», Gourmont «anima disperatamente opaca»).

Può sorprendere, nel «segreto» del diario, l’atteggiamento morbido tenuto verso il romanziere collaborazionista (e grande storico del cinema) Lucien Rebatet, del quale è stato ristampato di recente Les décombres (1942), pamphlet antisemita e best-seller dell’Occupazione: il 24 febbraio 1943 Gide si limita a giudicarlo «un mediocre libro». È il caso di soggiungere che non mancano apprezzamenti benevoli sul regime di Vichy, e nemmeno considerazioni sostanzialmente ammirative nei confronti di Hitler, «perfido, cinico finché si vuole, ma in grado di agire, almeno finora, come una sorta di genio» (7 luglio 1940: l’elogio si protrae per parecchie righe, culminando nel riconoscimento di un’«abilità superiore a quella di molti condottieri»). Tuttavia è giusto ascrivere a merito del diarista di non avere cassato il passo. Quanti si sarebbero comportati come lui? È anche giusto notare che permangono molte chiare tracce dell’adesione di Gide al comunismo (27 febbraio 1932: «di cuore, di temperamento, di pensiero, sono sempre stato comunista») e dell’infatuazione per Stalin, poi sconfessate, benché sia stato soppresso il cosiddetto Carnet dell’URSS (giugno-luglio 1936; ma i curatori lo hanno ripristinato).

Sono abbastanza rari gli aneddoti taglienti, le caricature, i pettegolezzi, di cui è costellato invece un altro Journal che ha come centro di gravità la letteratura, quello già nominato dei Goncourt (vari passi ne attestano una lettura assidua). Sintomatica appare l’abbondanza di rilievi di natura linguistica e stilistica: in II 2577 sono criticati alcuni usi grammaticali di Balzac, in II 1635 si segnala un errore «madornale» di Proust, in II 2568 è ritenuta «insostenibile» una costruzione dello stesso scrittore; in II 2480, Gide ne rivaluta una che credeva scorretta, perché la ritrova in Corneille, usata magnificamente, e in II 2006-7 si compiace di condividere con Racine un certo tratto di stile (non mettere al plurale un verbo retto da più soggetti).
Naturalmente il Journal offre – per la delizia degli studiosi – un profluvio di informazioni sui testi in corso di stesura, sull’ideazione delle trame e dei personaggi, sui pentimenti, sui progetti, e accoglie anche una miriade di note metadiaristiche, se posso chiamarle così, quasi sempre di grande interesse per la definizione dei moventi della scrittura di sé, della sua configurazione, della funzione che le è devoluta (e che non di rado è terapeutica). Le note prese il 25 luglio 1940 segnalano che Gide non concepisce il suo diario come un magazzino di appunti scompaginati, ma come un’opera che ha un «filo» e che si va costruendo attraverso una «trascrizione ordinata» dei pensieri. Il 21 agosto 1938, profondamente afflitto dalla morte della moglie Madeleine, ridotto a «far finta di vivere», afferma di aggrapparsi al taccuino per scampare al naufragio, come aveva fatto altre volte, ma «per metodo». Il 22 febbraio 1943 rilegge le pagine riempite dal 1° gennaio, e si dice sconfortato dalla loro «inutilità» e «mediocrità»; apprendiamo tuttavia che si era imposto di scrivere tutti i giorni, per occuparsi e per medicare le ferite dell’anima, mentre i taccuini precedenti erano stati aperti solo di tanto in tanto.

Venendo alla dimensione propriamente intima del diario, come questi ultimi richiami inducono a fare, s’è visto che lo scrittore chiama «confidenze» i pezzi che deposita a mano a mano nei taccuini. Confidenze rivolte a chi? Non si tratta certamente di un esercizio solipsistico: in ogni diario intimo, come ha inteso bene Jean Rousset, è implicito un «lettore intimo», essendo inconcepibili atti di scrittura che non presuppongano un atto di lettura, non importa se reale o virtuale. Gide scrive per una proiezione, per un riflesso dell’io, fedeli all’originale e nello stesso tempo dissimili: si ricorderà che il suo gemello di carta André Walter si chiede, di fronte allo specchio, chi egli sia veramente, sé stesso o l’immagine di sé che il cristallo gli rimanda. Sta di fatto che il diarista non promette e non si ripromette una veridicità totale – né prima della pubblicazione di parti quali più, quali meno estese del Journal, né dopo –, diversamente da quanto fanno Montaigne e Rousseau (nelle Confessions) con un lettore interpellato espressamente come tale. La sua autoconfessione ha una natura composita ed ellittica; ellittica ma non intenzionalmente elusiva, occorre precisare. C’è una situazione paradossale che spiega la presenza di numerosi vuoti tra i pieni: Gide scrive per sé ciò che sa già. Comunque sia, non spetta solo ai frammenti esumati dai curatori, e contraddistinti correttamente da una diversa disposizione grafica, ospitare la memoria di avventure sconvenienti, o decisamente scabrose secondo l’ortodossia morale del tempo in cui furono redatti (e non proprio obsoleta nel nostro): delle scorrerie alla ricerca di efebi da sedurre o di ragazzi di vita, delle soste in luoghi deputati al soddisfacimento di «bisogni urgenti», parla, con franchezza, l’edizione del 1939. Nel registro delle esperienze classificabili come intime è segnato anche molto altro: infimi dettagli personali, malesseri fisici (scrutati con un’applicazione che fa pensare a Montaigne), sfoghi coprolalici (II 2425), insonnie, incubi, ma pure sogni malinconicamente luminosi, come quello dell’amato Paul Valéry apparso al dormiente insieme a una bambina di straordinaria bellezza, che faceva discorsi «meravigliosi», ahimè dimenticati (24 febbraio 1943).

Resta da osservare che il 2016 non coincide con alcuna ricorrenza riconducibile alla vita o agli scritti di Gide (il 1916 è un anno vuoto di eventi importanti e di pubblicazioni; il premio Nobel gli fu attribuito nel 1947). Quindi conviene a maggior ragione rallegrarsi per la riproposizione, in una veste tanto pregevole, di un’opera che costituisce un punto di riferimento davvero imprescindibile nell’orizzonte letterario e culturale della prima metà del Novecento, e che offre al lettore infinite occasioni sia di diletto, sia di riflessione seria.