In Italia per partecipare al convegno Senza Pasolini organizzato dall’Università di Messina, Jean-Paul Manganaro, già professore di letteratura italiana contemporanea all’Università di Lille III, è una figura esemplare di passeur tra la cultura italiana e quella francese. La sua produzione è irriducibile a confini disciplinari netti: studioso, saggista, cuoco e traduttore ma anche fine umorista, i suoi interessi spaziano dalla letteratura al teatro, dalla danza al cinema. Il suo ultimo lavoro è una personalissima e paradossale autobiografia di Liz Taylor che sarà presto pubblicata in Italia dal Saggiatore.

Comincerei subito dal tuo rapporto con Pasolini. Sei nato in Francia ma hai vissuto e studiato in Sicilia fino all’università. Che immagine avevi di Pasolini dall’Italia e cosa hai ritrovato in Francia quando ti sei trasferito?

MANGANARO: Ho lasciato la Sicilia nel 1967 e quindi conoscevo già la produzione cinematografica di Pasolini, ma ero ancora troppo giovane o troppo stupido per leggere i romanzi. Arrivato a Parigi, col ’68, c’è stato il grande impatto di film molto importanti come Teorema o Porcile. Pasolini è stato sempre un autore molto seguito in Francia – per quanto a volte tradotto male – anche da parte di filosofi come Deleuze e Guattari (più Guattari che Deleuze). Dopo il 1975, con la fine della produzione pasoliniana, comincia una produzione su Pasolini sulla cui complessità (e talvolta ambiguità) bisognerebbe discutere a lungo. Un paio di anni fa mi hanno proposto la traduzione di quattro Pasolini: una sceneggiatura inedita che si chiama La nebbiosa, la ritraduzione di Affabulazione e dei primi due romanzi di Pasolini, Ragazzi di vita e Una vita violenta. Sto terminando la traduzione di Ragazzi di vita e devo dire che incontro difficoltà notevoli. Mi incuriosiva il fatto di poter lavorare su quattro testi di Pasolini, soprattutto perché nel frattempo stavo ritraducendo il Pasticciaccio di Gadda, che ho appena finito e di cui sono molto felice: credo che sia una piccola meraviglia.

Gadda è certamente tra i tuoi autori di riferimento.

MANGANARO: Gadda è l’autore del mio cuore, non saprei dirlo se non con parole deamicisiane (ma in fondo anche deleuziane: Deleuze parla di Spinoza come dell’autore del suo cuore). Questa è la settima traduzione che faccio di Gadda, è stato da sempre l’autore che ho letto di più e col quale credo di avere una reale pertinenza. Non parlerei di un percorso identico al suo (sarebbe strano affermarlo), ma c’è una concomitanza; non vorrei parlare di parentela, ma c’è comunque un punto di vista in cui mi sembra di essere competente.

Hai tradotto in francese più di 180 romanzi: alcuni di questi per affinità – Gadda ne è un esempio. Hai tradotto anche Il Gattopardo, che invece non è lo scritto di Tomasi di Lampedusa a cui ti senti più vicino.

MANGANARO: Avevo fatto una scommessa con l’editore: tradurre Il Gattopardo a condizione che mi facesse tradurre una novella singolarissima come Lighea. Credo fosse un’aspirazione giusta, perché mi sembra una delle più belle novelle del mondo, insieme a poche altre come L’alfiere nero di Boito – che ho poi tradotto. Insomma sono riuscito a fare un po’ le cose che volevo, anche se gli inghippi della vita ti portano anche a fare altro: mi è capitato di tradurre cose che non avrei mai voluto tradurre.

Le tue prime traduzioni sono degli anni Settanta, ma poi la tua carriera si è svolta all’università, dove sei stato docente di letteratura italiana. Non avevi bisogno di fare il traduttore: hai scelto di farlo, e con questa continuità e mole di lavoro. Come mai?

MANGANARO: È un problema psicologico: la traduzione per me è una palpitazione di tipo familiare. Avendo un padre siciliano (non italiano) e una madre bordolese (non francese) c’è stato sempre un problema di intendimento… L’attraversamento delle strade da un marciapiede all’altro, per cercare di capire qual è la strada, fa parte di una mia personale psicologia… però evidentemente non ce l’ho fatta, continuo ad attraversare ancora credendo che sull’altro marciapiede è sempre meglio. Non c’è stata risoluzione né psicanalitica né fisica. Ho cominciato traducendo Ferdinando Camon: ricordo che non facevo ancora l’insegnante, e quindi dovevo sostenere la possibilità di vivere, per questo mi sono messo a tradurre. Sono arrivato a Gallimard nel 1972 con una specie di concorso: avevano fatto una selezione su 10 traduttori e sono stato scelto. Ho consegnato la traduzione nel 1974 e da lì ho continuato, pur cercando di smettere negli anni Ottanta – ma perseguitato dalle tasse francesi ho firmato molti contratti di traduzione. Come vedi non è una vocazione, è una necessità, a diversi livelli: quelli psico-familiari, altri livelli ecc. Anche più complessi, perché in realtà parlo tre lingue, se consideriamo anche il siciliano.

Se si guarda al catalogo degli autori che hai tradotto ci si stupisce dell’assenza di scrittori come Manganelli o Savinio. Di sicuro ci sono molte sfide difficili – penso anche a Vincenzo Consolo, per esempio. Vorrei che mi parlassi del tuo rapporto con gli autori e di quanta scelta ci sia nel tuo lavoro.

MANGANARO: In genere mi danno gli autori difficili, ecco. Questa è la modalità pratica. Ho tradotto tutti i libri (tranne Lo stadio di Wimbledon) di Daniele Del Giudice, ma c’è anche Michele Mari, che mi piace molto e che ha scritto libri difficili, e anche Consolo certo, a cui sono arrivato tardi. Negli anni Ottanta mi sono messo un po’ a proporre degli autori italiani alle case editrici, e mi sono stati tutti rifiutati, anche se poi sono stati tradotti dieci anni dopo. Nel 1983 l’editore Seuil – per cui stavo traducendo L’Adalgisa di Gadda – mi ha affidato la traduzione di Palomar. C’è stata subito una grande simpatia di Calvino nei miei confronti, fino alla morte. Mi chiamava molto spesso, per avere consigli, per chiacchierare. Non ho tradotto Savinio perché l’operazione in Francia è stata proposta da alcuni editor che non sono riusciti a far fare l’opera intera, mentre Manganelli non ha mai avuto successo in Francia, a parte forse Centuria, e quindi è stato tradotto pochissimo. Ero pronto a tradurre un’opera di Manganelli, ma avevo chiesto così tanti soldi che poi la traduzione non si è fatta. Sembra un dettaglio, e invece è importante: ho molto lavorato sotterraneamente affinché la funzione di traduttore venisse non nobilitata, ma riconosciuta per quello che è. Gli autori non li scegli: gli editori hanno delle scuderie e lanciano i cavalli in funzione delle corse in gioco. L’autore non appartiene mai al traduttore, appartiene all’editore, che ne fa quel che vuole. Anche qui il discorso sarebbe molto più complesso e ha a che fare con sistemi capitalistici molto furbi e molto potenti. Alcune cose andrebbero chiarite anche rispetto allo status del traduttore in Italia, paese che pur avendo firmato i patti di Ginevra non li rispetta – ad esempio sulle percentuali che toccano ai traduttori. La situazione in Francia è abbastanza buona, da questo punto di vista.

Qual è stato il tuo rapporto con gli editori? Hai cominciato con Gallimard, hai lavorato con Seuil.

MANGANARO: Il rapporto costante era con questi due, per ragioni molto diverse, ma ho lavorato molto anche con piccoli editori. Ho anche tradotto per P.O.L. il primo libro di Marta Morazzoni, oltre a Carmelo Bene, che è un altro fatto personale.

Credo che valga la pena parlarne. La prima volta che ho letto il tuo nome è stato su L’immagine-movimento di Gilles Deleuze, che ti è dedicato. So che hai un ruolo nell’incontro tra Carmelo Bene e Deleuze.

MANGANARO: In Francia Carmelo era conosciuto soprattutto per il cinema. Lavoravo all’epoca per un’istituzione che si chiamava Dramaturgie, e a un certo punto intorno al 1974-75 si è imposta l’idea di far venire in Francia Carmelo Bene non più come cineasta ma come attore teatrale. È stato un lavoro lungo, complesso, e me ne sono occupato io perché ero l’unico in quell’istituzione che conoscesse già la filmografia di Bene. Avrei bisogno di scavare così tante cose sulla mia percezione del teatro in generale e di quello di Carmelo Bene in particolare che sconfineremmo nell’infinito… Diciamo che c’è stato questo incontro e che a un certo punto ho chiesto a Carmelo chi volesse incontrare a Parigi. Non l’avessi mai fatto! Ha tirato fuori una sfilza di nomi come Lacan, Foucault, Deleuze, Klossowski, Barthes… per fortuna conoscevo tutti (tranne Lacan), quindi li ha avuti tutti. Però c’è stato da parte di Deleuze un impeto immediato che non c’è stato negli altri, anche se ci sono state delle fraternizzazioni molto importanti. Naturalmente poi hanno portato avanti da soli questo incontro, anche se facevo sempre da intermediario, non si sono mai visti senza di me. Deleuze non viaggiava da solo, e credo di essere l’unico che gli abbia fatto fare tre viaggi in Italia: l’ho accompagnato a vedere il Riccardo III a Roma, il Lorenzaccio a Firenze e il Manfred di Byron e Schumann alla Scala di Milano. Questi sono i tre viaggi che ho fatto in Italia con Deleuze. Carmelo non aveva certo bisogno di Deleuze per essere Carmelo, e viceversa; però è avvenuto un incontro, che è molto più importante, ed era la cosa che interessava entrambi. Sono due personaggi che non sono mai stati situati nella immedesimazione parentale: non si può dire che l’uno sia il figlio dell’altro e cose simili.

Anche sul teatro hai fatto un lavoro importante: al di là di Carmelo Bene, e oltre a Goldoni che è un’anomalia all’interno della tua produzione tutta dedicata al contemporaneo, hai lavorato su autori che potremmo definire minori, alla traduzione dei quali si intreccia forse in parte anche la tua rivendicata sicilianità. Penso a Lina Prosa, Spiro Scimone, penso ad altri non siciliani come Enzo Moscato o Fruttero e Lucentini, ma so che ti dovevi occupare di tradurre in francese anche alcuni testi di Franco Scaldati. Qual è il tuo ruolo in questi casi? Sei tu a proporre questi autori?

MANGANARO: C’è stato un progetto su Franco Scaldati una ventina d’anni fa, con Il pozzo dei pazzi, perché ero in contatto di lavoro e di amicizia con Franco Quadri. Ma c’è anche un milanese come Antonio Tarantino, che mi piace molto perché ha una lingua impossibile. Mi interessano i modi in cui si può aberrare la lingua. Ho tradotto anche l’Ambleto di Testori, e siccome tradurre il milanese con l’occitano non mi interessava affatto ho inventato una lingua, come avevo già fatto per L’Adalgisa, in cui ricreo una possibilità di parola francese-lombarda. Sono state esperienze importanti dal punto di vista della riflessione sulla traduzione. La mia più grande traduzione in questo senso è quella de Le baruffe chiozzotte, in cui mi sono immaginato un francese parlato da parigini che conoscevano il veneziano: è diventata una lingua fatta di rumoristica, di suoni che somigliano a qualcosa del veneziano ma trasferiti in un francese che non esiste, un po’ assurdo. Purtroppo non è pubblicata, ed è l’unica cosa che rimpiango. Gli altri autori che hai citato li stimo moltissimo ma non li ho scelti io, sono loro che hanno scelto me: può sembrare un’iperbole ma è stato così, anche perché Franco Quadri gli consigliava le mie traduzioni. Sono stato molto stupito dalla traduzione di Pirandello in Francia, che è diventato un essere assolutamente banale, piccolo-borghese, un po’ pantofolaio, troppo psicotico: e questo mi dispiaceva perché non si traduceva la lingua di Pirandello. Non sempre, ma molto spesso la lingua di Pirandello – e specialmente quella teatrale – è una lingua di lotta, di guerra, molto violenta: non dire nulla per cinque pagine è un atto enorme. La lingua veniva stirata, senza pieghe, mentre c’è una violenza linguistica in Pirandello che è talvolta inaudita. Ero molto interessato alla possibilità di tradurre queste cose. In questi casi non traduco più per voglia personale, ma quasi per un principio politico. Evidentemente c’è una solidarietà con Spiro Scimone per questo atteggiamento particolarmente siciliano – che è meno evidente in Lina Prosa: il suo campo è un po’ diverso anche se radicalmente inserito in una cultura siciliana un po’ dimenticata, quella della tragedia classica, greca, che esiste anche sul suolo siciliano. Le motivazioni sono quindi sempre diverse. Tradurre Tarantino è per me come tradurre in francese Genet: ha un’intuizione forte della lingua, nel senso che la scassa, non puoi più ripararla da nessuna parte se non su una linea poetica, di pura creatività. Quando il traduttore ha la possibilità di essere libero, di reinventarsi la poesia è un’occasione da non perdere, che ti permette anche di diventare sfrontato, non esegetico e così via.

Se ci spostiamo sul lato del cinema, al di là de L’immagine-movimento di Deleuze – che è una delle tue poche traduzioni in italiano – hai tradotto Le buttane di Aurelio Grimaldi e anche alcune sceneggiature di Fellini, prima di dedicargli un intero libro.

MANGANARO: Il mio lavoro su Fellini comincia quando dopo mature riflessioni l’ho scelto come l’autore a cui dedicare un corso di cinema all’università. Non avrei pensato di ritrovarmi un giorno a scrivere un libro sul suo lavoro. Ho avuto la fortuna di vedere i film di Fellini nel momento della loro uscita: mia madre si annoiava moltissimo in Sicilia e ci portava al cinema tutti i giorni, dall’età di 5 anni fino alla sua estrema unzione, e quindi vedevo i film nella loro attualità immediata. Ho visto i film di Fellini, mi hanno attraversato, li ho amati, non li ho amati, li ho rivisti e ricapiti ecc. ecc. È un lavoro molto lungo e complesso, molto rizomatico. E poi scelgo di lavorare su Fellini all’università con un certo successo, perché non raccontavo i film ma cercavo di indagare cosa c’era dietro ogni cosa: quello che l’immagine nella sua potenza lascia comunque percepire anche se non si vede. Credo di aver cercato in ogni immagine non la spiegazione storica ma la spiegazione psichica (ma senza psicanalisi): parlo di psychisme come ne parlerebbero Nathalie Sarraute o Virginia Woolf: dietro ogni cosa c’è qualcosa che l’ha costituita, ed è questo movimento che mi interessa cogliere.

Nella bellissima conversazione che apre Confusion de genres, una raccolta di tuoi saggi pubblicata da P.O.L. nel 2011, scrivi che “la vita da insegnante non bastava a colmare un certo numero di esigenze che mi si presentavano. Scrivere, parlare e tradurre sono operazioni molto diverse. Sì, come amare, bere e danzare”. Vorrei farti una domanda sul tuo passaggio alla scrittura in qualità di autore: hai detto più volte che il lavoro del traduttore non è un lavoro di creazione (perché il testo è già dato) ma un lavoro di invenzione, un lavoro di ricerca. Hai passato tutta la vita a scrivere e a passare da un marciapiedi all’altro. Quando si impone l’esigenza di prendere la parola direttamente, e a cosa risponde?

MANGANARO: È molto difficile rispondere a questo perché si tratta di passaggi: a un certo punto cambi letto, o decidi di cambiare le lenzuola. Ci sono cose che volevo scrivere. Federico Fellini – Romance, o Liz T. – Autobiographie sono delle esigenze… sono due operazioni diverse: mentre Fellini è un resoconto pubblico, comune, Liz T. è proprio un’autobiografia. Come direbbe Deleuze: era il mio divenire donna. Ho sempre scritto: se non faccio questo lavoro non ho nient’altro da fare nella vita, mi annoio. Non vado a passeggio, non ho cani, non ho gatti: quindi ballo! Come dice Orson Welles ne La ricotta: “egli danza”. A me piace molto questa purificazione – togliendo alla parola ogni senso religioso – del corpo attraverso il ballo. Mi spiace che con l’età avanzante questa possibilità sia sempre più ristretta, anche perché ho problemi polmonari e il soffio non soffia più. È chiaro che volevo fare la traduzione del Pasticciaccio: non l’ho mai chiesto, però mi è successo. Probabilmente se mi propongono la ritraduzione della Cognizione del dolore lo farò, però vorrei smettere di tradurre. Ho troppo l’abitudine del non dover scegliere ciò di cui parlo per passare alla scelta – che la scrittura impone – di avere un argomento. Questo è difficile. Vorrei tradurre Dolores Prato: Giù la piazza non c’è nessuno è un altro libro del cuore. Ma non so se avrò il tempo.

Concluderei parlando di un’altra passione a cui hai dedicato un libro: la cucina. Che cos’è Cul in air?

MANGANARO: La prima volta che ho invitato a cena P.O.L. qui a casa mia, nel 1985-86, ho letto una mia ricetta ed erano tutti stramazzati a terra dal ridere. P.O.L. mi ha detto che una volta finito il libro lo avrebbe pubblicato immediatamente. Ci ho messo trent’anni a farlo, anche se poi materialmente l’ho scritto in poco tempo perché mi sono divertito molto. In realtà mi sono reso conto che è un libro assolutamente intraducibile, non lo può tradurre nessuno, perché è tutto fatto di doppi sensi. Già il titolo lo è, forse in italiano si manterrebbe: Cul in aria, ed è tutto giocato su una specie di umorismo molto leggero con una serie di variazioni sulla poesia (sonetti, strambotti, ecc.). È un libro di divertimento che vuole far capire a tutti che la cucina si può fare molto facilmente, senza problemi: che si può cucinare tutto. L’angoscia fondamentale degli uomini e delle donne che cucinano è seguire le ricette: anche qui un’organizzazione di stampo attivista-capitalistico per cui le dosi e i modi di cucinare devono essere sempre uguali, l’imposizione assoluta delle salse nella cucina francese e così via… invece c’è una cucina libera, un po’ spavalda, anche un po’ burattina, anche con un certo tipo di sfumatura sessuale: non è che si fotta veramente, ma insomma… è anche un libro irreligioso.

Un manifesto per la liberazione della cucina, insomma.

MANGANARO: Esatto: un manifesto politico per la liberazione del cucinare, all’infinito.