La consultazione popolare sul documento «La Buona Scuola» è iniziata il 15 settembre e si concluderà a metà novembre. Ci riferiamo al rapporto intitolato «La Buona Scuola». Presentato alla stampa il 3 settembre scorso, enuncia ambiti e modalità dei futuri interventi legislativi immaginati da questo esecutivo: accesso alla professione, formazione, valutazione, status giuridico, carriera dei docenti; competenze dei dirigenti scolastici, sussidiarietà pubblico-privato, organi collegiali e governo della scuola.

Nel merito, al netto di atti dovuti contrabbandati come scelte (l’assunzione a tempo indeterminato di 150 mila precari imposta dalle direttive europee) e di alcune velleità condivisibili (più arte, più musica, più educazione fisica sin dalle elementari), il quadro che si delinea è quello di una scuola che rinuncia definitivamente a tutti i nostri principi costituzionali e, prima ancora, al sistema di valori cui quei principi fanno riferimento: una scuola in cui la competizione prevarrà sulla cooperazione, una scuola finanziata e controllata dal mercato, una scuola marcata da un’autonomia localistica in cui il territorio si farà destino.

Una scuola che avrà dunque rinunciato al suo mandato costituzionale, quello di ricomporre le ineguaglianze socio-economiche e culturali per consentire a tutte e a tutti pari opportunità di esercizio della cittadinanza e di accesso ai saperi critici. Una scuola definitivamente trasformata in azienda, costantemente sottoposta al vaglio del customer care.
Come ci chiede l’Unione Europea. La quale, patteggiando la dilazione del pareggio di bilancio con riforme neoliberiste, ci impone i diktat della troika anche nell’istruzione.

Se leggiamo le raccomandazioni del Consiglio Europeo sul programma italiano di stabilità del 2014 non resta alcun dubbio sul fatto che Matteo Renzi i compiti a casa li stia eseguendo scrupolosamente. Si chiede «la diversificazione della carriera dei docenti, la cui progressione deve essere meglio correlata al merito e alle competenze, associata ad una valutazione generalizzata del sistema educativo che potrebbe tradursi in migliori risultati della scuola». Si chiede «il rafforzamento e l’ampliamento della formazione pratica, aumentando l’apprendimento basato sul lavoro e l’istruzione e la formazione professionale, per assicurare una transizione agevole dalla scuola al mercato del lavoro».

Nell’elaborato del premier tutte le consegne sono rispettate: gli scatti di anzianità sostituiti da scatti per competenze; la valutazione incrementata con il ricorso pervasivo ai test Invalsi e con la presenza degli esterni; le forme di alternanza scuola-lavoro, da svolgersi più in azienda che a scuola, assolutamente rafforzate.

Ora, come si configura la proposta dell’esecutivo? «La buona scuola» non è un disegno o un progetto di legge presentato e discusso in Parlamento, come iter giuridico e istituzionale vorrebbe, bensì un «rapporto», annunciato ai cittadini in televisione, con il consueto corredo postmoderno di loghi e slide. «Docenti, studenti, genitori, nonni o altro» possono registrarsi sul sito dedicato e compilare un questionario a risposta chiusa; possono partecipare e promuovere dibattiti sulla piattaforma, preliminarmente muniti di kit, sulla base di un format e di una metodologia predefiniti; possono costruire «stanze» tipo «sblocca scuola», «meno costi per le famiglie», «servizio civile per la buona scuola».

Una modalità neppure apparentemente trasparente, poiché priva di qualunque possibilità di verifica e di interscambio tra chi vi accede e chi la governa. Ma l’Ocse ci ha insegnato che le riforme che hanno successo sono legate alla creazione del consenso: nel Rapporto 2009 spiegava chiaramente che «in Italia il decentramento e l’autonomia della scuola non ha condotto a trattative locali su stipendi, retribuzioni e condizioni di lavoro. Manca il consenso per dotare gli istituti e gli insegnanti degli strumenti di governance necessari». Ed ecco allora una consultazione telematica pronta alla bisogna, il secondo compito ben fatto del nostro volenteroso presidente del Consiglio.

Non importa che sia un dispositivo biopolitico, come direbbe il filosofo francese Michel Foucault, cioè di fabbricazione e controllo di forme di espressione e spazi di libertà solo apparenti. Non importa che, in corpore vili, nessun cittadino culturalmente attrezzato e normodotato avallerà mai la dismissione della scuola da parte dello Stato, chiunque sia a chiederla. Non importa che, mentre gli italiani per due mesi si baloccheranno sul sito della buona scuola, il ministero introdurrà i provvedimenti varati a Bruxelles, «passodopopasso», a colpi di note, circolari e direttive. Non importa che ci siano soluzioni diverse dall’iniquo modello privatistico di stampo americano e anglosassone. Ci sembra di sentirlo, il solerte Matteo, mentre fa bene i compiti a casa: “Foucault chi?”

*Associazione Nazionale «Per la Scuola della Repubblica»