«La maggioranza assoluta. Il voto è andato bene anche stavolta». Ha ragione la ministra Maria Elena Boschi che è la più rapida a festeggiare il primo sì al disegno di legge sulla scuola, alla camera. È così, ma il voto finale è il primo e l’unico in quattro giorni di votazioni sul quale il governo sia riuscito a raggiungere la maggioranza assoluta, preciso all’unità: 316 sì, 137 no. Mancano dal conto delle forze di governo più di ottanta deputati, dei quali 56 del Pd. E di questi metà sono assenti giustificati o in missione, l’altra metà invece non partecipa al voto per non votare contro la legge. Che – spiega l’apposito documento diffuso dalla sinistra interna del partito – andrà cambiata al senato. Dove i numeri della minoranza Pd sono un po’ più contenuti, ma assai più rilevanti.

«Al senato la maggioranza si regge in piedi per sette voti, abbiamo perso una battaglia ma non la guerra. Sarà un Vietnam», sintetizza Luigi Di Maio del Movimento 5 Stelle. Tra i 28 democratici che non hanno votato tutto lo stato maggiore antirenziano, da Bersani a Fassina, da Speranza a D’Attorre e Cuperlo. Subito in prima fila nel chiedere modifiche al prossimo passaggio. Che nemmeno il governo nega. «Ovviamente riaffronteremo alcuni punti che sappiamo sono ancora discussi», dice la ministra Boschi. E seppure la titolare dell’Istruzione Stefania Giannini si mostri più cauta – «i pilastri del provvedimento non saranno toccati» – vale di più quello che anticipa il vice di Renzi nel Pd, Lorenzo Guerini: “Il senato potrà essere la sede giusta per eventuali aspetti da migliorare”. Nessun dubbio che andrà così, casomai si potrebbe notare la stranezza di un governo e di una maggioranza che descrivono il bicameralismo come il male assoluto quando si tratta di proporre la riforma costituzionale, poi sistematicamente vi si rifugiano. E se direttamente il presidente del Consiglio ieri ha ripetuto la sua promessa (che però vale anche come ammissione) che «la scuola non è l’Italicum e non posso dire “prendere o lasciare”», l’impressione è che quando la legge tornerà alla camera per l’approvazione definitiva il governo non resisterà alla tentazione di mettere ancora una volta la fiducia. Del resto, non è stato proprio Renzi a definire questo strumento «il massimo della democrazia» quando lo ha utilizzato per la legge elettorale?

Un attimo dopo il voto finale, che hanno accompagnato scandendo in aula lo slogan «scuola pubblica, scuola pubblica» i deputati di Sel sono usciti in piazza Montecitorio e si sono uniti alla protesta di sindacati e studenti. Ma l’attenzione è già tutta sul senato. Le richieste della minoranza Pd sono riassunte dal senatore Gotor: «La chiamata diretta degli insegnanti da parte dei presidi, seppur attutita, è ancora troppo dentro ad una logica monocratica, dall’alto». E poi «la discriminazione dei precari di seconda fascia, che sono rimasti esclusi dal piano assunzioni nonostante abbiano svolto corsi di formazione e tirocini selettivi e abbiano alle spalle anni di servizio». Infine le «detrazioni fiscale che saranno garantite anche alle scuole superiori private e parificate che sono in gran parte dei diplomifici. Era stato il governo a dire che sarebbero stato escluse proprio per questo motivo e invece alla camera sono state reinserite». Un elenco probabilmente troppo lungo perché il governo possa aderirvi totalmente. E allora alcuni esponenti della minoranza Pd di tendenza «lealista» già concentrano le richieste. «Consideriamo in particolare una vera e propria ingiustizia la decisione di lasciare fuori tantissimi docenti dal piano di assunzioni previsto dallo stesso disegno di legge, persone che hanno gli stessi titoli e gli stessi diritti ad essere assunti dei loro colleghi che hanno avuto solo la fortuna di essere arrivati prima», dichiarano il deputato Stumpo e la deputata Bruno Bossio. Mentre il ministro Martina che è il più renziano dei non renziani preferisce concentrarsi sui risultati già ottenuti, come «lo stralcio del 5 per mille», che però il governo ha deciso solo per ragioni di copertura finanziaria e che Renzi annuncia di voler recuperare. Per la ministra Giannini infatti consentire ai contribuenti di indirizzare una parte delle loro tasse alla scuola preferita non è fonte di disuguaglianze ma «un’idea innovativa». Ed è la stessa titolare dell’Istruzione che festeggia il passaggio di ieri alla camera come un successo su quel «dissenso che è distruttivo e che finisce per ledere violentemente i diritti di base».