Dopo l’attento di sabato scorso ad Ankara, il più sanguinoso nella sua storia, e con l’avvicinarsi delle elezioni anticipate del 1 novembre, la Turchia è un paese profondamente diviso. Il doppio attentato dinamitardo di sabato scorso nella capitale turca Ankara, con oltre cento morti e centinaia di feriti, è la strage terroristica più grave della storia turca. Ma le dinamiche dell’attacco, come il suo obiettivo, ricordano altre stragi recenti e meno recenti registrate nel Paese. Questa volta sono state prese di mira migliaia di persone radunate per chiedere maggiore democrazia e la fine degli scontri tra l’esercito e i guerriglieri del Partito dei lavoratori del Kurdistan (Pkk), ripresi da luglio dopo una tregua di oltre due anni. Il 20 luglio scorso a Suruç – dove sono morte 33 persone – l’obiettivo della violenza erano giovani di sinistra che intendevano portare aiuti alla città siriana di Kobane. Il 5 giugno a Diyarbakir, con quattro persone uccise, le vittime erano kurdi riuniti per ascoltare un comizio del Partito filo-kurdo democratico dei popoli (Hdp).

C’è una linea comune che attraversa queste tre drammatiche vicende. Il premier Ahmet Davutoglu, afferma che che lo Stato islamico (Isis) è in cima alla lista degli indiziati dell’attentato di sabato. Anche nel caso degli attentati di Diyarbakir e Suruç, le autorità hanno concluso che i kamikaze facessero parte di cellule turche dell’Isis. Ma oltre a sommarie «spiegazioni», le autorità non hanno fornito alcuna altra informazione sui motivi degli attacchi e l’identità dei mandanti. Nel caso di Suruç, il Partito della giustizia e dello sviluppo del presidente Recep Tayyp Erdogan (Akp), assieme ai nazionalisti del Mhp, hanno impedito che si formasse una commissione di inchiesta parlamentare sulla vicenda.

Sulla strage di Ankara è stato subito posto il segreto istruttorio: questo secondo numerosi osservatori, anticipa il pericolo che anche in questo caso l’indagine si risolverà in un nulla di fatto. Proprio come accaduto per le centinaia di omicidi politici commessi dagli anni ’90 fino alla metà del 2000, da quello che più tardi è stato definito «lo Stato profondo».

«Dato che viviamo in Turchia, sappiamo che la vicenda non verrà indagata come si dovrebbe e che nessuno dei mandanti e dei responsabili che si trovano dietro le quinte dovrà rispondere dell’accaduto», ha scritto su HaberTürk l’analista Soli Özel. «Questo dubbio è approfondito dal fatto che, fino ad oggi, non sono mai state presentate prove convincenti sui collegamenti presenti dietro agli attacchi terroristici passati di cui sono stati catturati gli esecutori».

Se la pista dell’Isis è considerata verosimile da parte di diversi osservatori, il governo del Partito della giustizia e dello sviluppo (Akp) viene ritenuto da più parti corresponsabile dell’accaduto. All’esecutivo, accusato di avere fornito sostegno logistico all’Isis con l’obiettivo finale di rovesciare il regime di Bashar al Assad in Siria, vengono rinfacciati dall’opposizione legami ambigui e poco trasparenti tenuti con il gruppo jihadista. Ora, secondo questa chiave di lettura, la situazione sarebbe sfuggita di mano ad Ankara. La giornalista dell’Economist Amberin Zaman suggerisce che l’attacco dell’Isis sia una sorta di prolungamento in Turchia della battaglia in atto tra le milizie curde e lo Stato islamico in Siria e nel Nord Iraq.

Mentre l’opposizione politica sottolinea le mancate precauzioni delle forze dell’ordine e dell’intelligence e il co-leader dell’Hdp Selahattin Demirtas afferma che «l’Isis non può muoversi comodamente in Turchia senza che lo sappiano i servizi segreti», altri commentatori arrivano a considerazioni più estreme. Kadri Gürsel ad esempio vede nella pista Isis un diversivo per distrarre l’attenzione: «Qualcuno stava cercando di porre fine agli scontri (tra l’esercito e il Pkk). Hanno voluto invalidare questo tentativo, trasportando al contempo il conflitto in una grande città», ha affermato Gürsel, il quale ritiene che «non è un caso che gli attacchi rivolti alla sinistra, all’opposizione, ai kurdi e ai democratici in Turchia (…) siano anche attacchi su cui non si riesce mai a fare chiarezza».

Un punto su cui si è soffermato anche il giornalista Celal Baslangiç di Cumhuriyet, ricordando come «quando è il governo ad organizzare un comizio ‘per la pace e la fratellanza’ tutto si svolge nella massima sicurezza e non si verifica alcun incidente».

Il massacro di Ankara si somma ad una situazione già estremamente tesa per il Paese. All’indomani delle elezioni tenute il 7 giugno scorso, nelle quali l’Hdp, ottenendo il 13% dei voti ha impedito all’Akp di formare da solo un governo per la quarta volta consecutiva, la Turchia è stata catapultata in un crescendo di violenze. Sulla scia degli scontri tra Pkk e militari, attacchi messi in atto da frange nazionaliste hanno preso di mira l’Hdp e i cittadini curdi. Gli scontri armati tra gli autonomisti kurdi e le forze dell’ordine hanno raggiunto anche diversi centri urbani, dove le autorità hanno dichiarato il coprifuoco – con situazioni di estremo disagio e decine di perdite di vite umane.

In questo contesto (…) i media che non assumono le posizioni del governo subiscono aggressioni di ogni tipo (…). Sono inoltre all’ordine del giorno rallentamenti dei servizi Twitter e Facebook, come accaduto dopo la strage di Ankara, per la quale è stato anche emanato un divieto di diffusione di immagini.

Alla luce di quanto accaduto sabato, dopo proteste di massa dei giorni dopo che hanno visto scendere in piazza migliaia di persone a Istanbul e ad Ankara, i partiti hanno deciso di sospendere per alcuni giorni i comizi elettorali.

A due settimane dalle consultazioni anticipate del 1 novembre il paese si trova ulteriormente spaccato. E se il partito di Erdogan si fa paladino e difensore della «stabilità» in cerca di nuovi consensi alla prossime elezioni, la drammatica situazione degli ultimi mesi – attentati inclusi – racconta una realtà molto diversa.

* Osservatorio Balcani e Caucaso