Per la valutazione del biennio renziano bisogna distinguere tra la maschera della comunicazione e la sostanza dell’azione di governo.

Nella costruzione dell’immagine adesso lo statista di Rignano fa appello alla «generazione Biscardi», si dedica a imitazioni degli avversari che scivolano su «er gombloddo», e si scaglia contro gli «illuminati aristocratici». Cita un Borges immaginario e scambia il precetto misericordioso del «vestite gli ignudi» con l’ordine di far coprire le nudità degli Uffizi e dei Musei Capitolini.

Però Renzi non è solo una variante della commedia all’italiana. E’ l’espressione di un comitato d’affari della piccola borghesia toscana che conquista Palazzo Chigi, grazie agli appoggi dei poteri più influenti dei media e della finanza, e ai suggerimenti di faccendieri equivoci (ancora adesso il premier parla di «strani amori»).

La coalizione dominante del renzismo è situata in un’era geograficamente protetta che senza difficoltà scala un simulacro di partito e lo privatizza.

Una volta al governo Renzi si preoccupa di piazzare gli amici con nomine spregiudicate e di ringraziare con una pioggia di provvedimenti la borghesia italiana con aziende in dismissione e in prossimità di acquisizione da parte dei capitali stranieri. Con lo scalpo del sindacato, e con le riforme strutturali, ha gratificato il palato rugoso di una borghesia che storicamente non vuole il conflitto, i soggetti della mediazione sociale, una politica autonoma dagli affari.

Ha regalato 13 miliardi alle imprese con decontribuzioni che hanno realizzato un paradosso assurdo. I padroni hanno ottenuto, con il pacchetto delle cosiddette tutele crescenti, la «libertà di licenziare», così l’ha chiamata proprio il presidente del consiglio, e in più, oltre alla sovranità assoluta sul destino della forza lavoro, hanno anche incassato 8 mila euro annui per ciascun assunto passato sotto il nuovo profilo contrattuale che rende il corpo che fatica ancor più merce.

Lo stesso bonus degli 80 euro dato ai redditi inferiori è un regalo che non dispiace alle imprese perché dalle loro tasche non esce un euro, mentre, a contratti bloccati, la trovata elettorale comporta una copertura raccapezzata solo con ulteriori tagli ai servizi pubblici. Ad un sud che sprofonda nell’arretratezza più cupa di una stagnazione senza sbocchi, il governo nega le tracce minime di politiche di coesione territoriale. E anzi proprio i fondi destinati al mezzogiorno sono stati dirottati per finanziare le decontribuzioni alle imprese del nord.

Dopo aver ottenuto delle cose che mai avrebbe osato neppure sperare (cancellazione dell’articolo 18, sconfitta del sindacato, aiuti di Stato mascherati con decontribuzioni, progetto giovani) l’impresa comincia a dare segni di insofferenza. La vulnerabilità del sistema bancario, la montagna incontrollata del debito pubblico (che nel 2015 è cresciuto di 33 miliardi e 800 milioni), le spese allegre dell’amministrazione centrale (il cui debito consolidato è cresciuto di 40,5 miliardi mentre quello degli enti locali è sceso di 6,6 miliardi), i segnali di fumo aggressivo delle potenze speculative, di nuovo irate e pronte a colpire, gettano panico nel padronato italiano. Non sa che fare per rimediare, il governo della inesperienza lo fa precipitare nel terrore dinanzi all’eventualità che qualcosa di drammatico possa di nuovo accadere.

Renzi fiuta il pericolo che qualcuno dai piani alti possa non più considerarlo come inamovibile. Ossessionato dal terrore che il pendolo delle rimozioni forzate possa riattivarsi, togliendo un comico per richiamare un tecnico, comincia a dare sfogo al suo populismo da palazzo. Invoca plebisciti sulla sua persona. Adesso la sua strategia è quella di inveire contro «i moralisti da salotto» e di graffiare le élite agiate desiderose di «apparire all’ora dell’aperitivo o al brunch domenicale con gli amici dell’alta società».

Proprio queste sue stridule corde populistiche, che prima i poteri forti hanno esaltato come utile strumento vitalistico per cacciare i rossi ancora in circolazione, ora vengono avvertite come un impedimento all’azione di governo. La sfida alle regole europee dell’austerità non è sorretta da nessuna idea di politica industriale ma obbedisce soltanto a piccoli calcoli elettorali. La flessibilità che Renzi reclama è solo per condurre in deficit politiche demagogiche (il regalo di compleanno ai diciottenni), per dirottare ulteriori risorse ai ricchi (3,7 miliardi annui per l’abolizione della Tasi anche per gli immobili di lusso) e per tagliare altri fondi alla sanità pubblica (divieto ai medici di base di prescrivere ricette, cure e accertamenti diagnostici costosi).

Il fastidioso principio di realtà smonta però ogni efficacia delle trovate governative. L’Italia recupera appena il 3 per cento della sua produzione industriale, precipitata dopo la grande recessione. La Germania ha ripreso invece il 27,8 per cento e anche la Spagna è risalita di 7,5 punti. Renzi si vanta di aver migliorato dello 0,9 l’occupazione giovanile. Ma in Germania l’incremento è stato del 2,7 per cento, in Gran Bretagna del 4,2 e in Spagna dell’1,9.

Bisogna comunque riconoscere una coerenza nelle scelte di Renzi. Il governo che ha imposto il jobs act è lo stesso che ha deciso di varare, con canguri e aule abbandonate dall’opposizione, la legge costituzionale ed elettorale. Il senso dell’azione dell’esecutivo è di colpire il lavoro per archiviare la democrazia parlamentare e di aggredire la rappresentanza e i soggetti della mediazione per schiacciare il lavoro.

I risultati di questo intreccio perverso non sono certo positivi. E allora solo segni negativi, nessun primato bisogna riconoscere al governo della velocità? In effetti, un record Renzi l’ha acciuffato. Dopo 10 anni di continuo decremento, nel 2015 tornano a salire, e del 16,5 per cento, le morti sul lavoro. Un record poco spendibile. Ma forse non del tutto estraneo al clima euforico del jobs act.