A settant’anni dall’abbattimento dei cancelli di Auschwitz torniamo a celebrare il Giorno della Memoria.
Come sempre si rinnovano con il ricordo l’esigenza e il momento della riflessione su ciò che è stato ma anche su ciò che è, vale a dire su come le aspettative che furono legate alla liberazione dei lager nazisti si siano tradotte in realtà, siano andate deluse o abbiano subito arretramenti. Auschwitz ha segnato un momento periodizzante nella storia della nostra civiltà.

I soldati dell’Armata Rossa che entrarono in Auschwitz e i militari anglo-americani che provenendo da occidente si imbatterono sul suolo tedesco nei primi campi di concentramento lo compresero immediatamente: l’orrore di ciò che si presentava ai loro occhi non era soltanto qualcosa di inedito, di inaudito, che provocava istintiva repulsione, era soprattutto il segno e il simbolo di una concezione del mondo e di una visione della vita e dei rapporti tra i popoli.

Allo sdegno del primo istante fece seguito la consapevolezza che non si era trattato di un’esplosione di follia ma di un piano elaborato e deliberato di modificare non soltanto la carta geografica e la geopolitica dell’universo, ma la gerarchia stessa dell’umanità. Nell’autunno del 1945, aprendo le sue sessioni, il Tribunale Militare Internazionale di Norimberga, in un’epoca in cui non era ancora emersa la centralità della Shoah sullo sfondo della seconda Guerra Mondiale, mise l’accento sui fatti emersi dallo scoprimento dei lager designandoli cumulativamente come crimini contro l’umanità.

Nel chiuso dei lager, ripetendo in dimensioni esponenziali atrocità e violenze che si erano manifestate già durante la Prima Guerra Mondiale come prima guerra totale, si produssero torture indicibili, uccisioni di massa su scala industriale, pratiche di razzismo al limite del genocidio degli ebrei e degli zingari, asservimento di milioni di individui di tutte le nazionalità al lavoro forzato. Un processo che non si sarebbe potuto realizzare se il vertice nazista non avesse avuto la connivenza non soltanto della maggioranza del popolo tedesco ma anche dei collaborazionisti di tutti i regimi associati al Terzo Reich. Un libro appena uscito di Simon Levis Sullam reca il titolo quanto mai esplicito “I carnefici italiani”.

Questo era quello che avevano alle spalle i sopravvissuti dei lager, i quali non a caso al di là della condanna dei crimini lanciarono un messaggio positivo. Alla metà di aprile del 1945 i sopravvissuti di Buchenwald, come accadrà anche in altri lager liberati, sintetizzavano il loro testamento morale e politico in queste parole: «La nostra parola d’ordine è l’annientamento del nazismo sin dalle sue radici. Il nostro obiettivo è la costruzione di un nuovo mondo di pace e di libertà».

Settant’anni dopo questo testamento si può chiedere un bilancio della misura della sua realizzazione alle generazioni che si sono succedute dal 1945 in poi. L’utopia del 1945 è stata salvata solo in parte; fino a poco tempo fa potevamo sostenere che il suo esito più felice fosse l’assenza di conflitti armati per oltre mezzo secolo sul continente europeo. Ma oggi si torna a sparare in Ucraina, rendendo ancora più effimero questo primato dell’Europa. La realtà di oggi è che i fondamentalismi che sembravano essere usciti sconfitti dall’esperienza della Seconda Guerra Mondiale oggi tornano a insanguinare anche il nostro continente. Né l’Europa può dirsi fuori da altri terreni di scontro che dal Medio Oriente all’Africa centro-settentrionale alimentano un clima di instabilità, in cui i conati di egemonia di vecchie potenze si mescolano a nuovi fondamentalismi etnici e religiosi.

I sopravvissuti del 1945 erano tornati alla libertà in un orizzonte completamente diverso: chi poteva immaginare che dopo la Shoah si sarebbe dovuto fronteggiare una nuova ondata di antisemitismo? Troppi fenomeni nuovi e apparentemente anche contraddittori si sono incrociati a infrangere le certezze che sembravano acquisite alla fine della Seconda Guerra Mondiale. Si pensi solo alle conseguenze della globalizzazione, che da una parte ha favorito allargamento di orizzonti e di mercati, dall’altra ha dato la spinta a movimenti migratori che lungi dal favorire processi di integrazione ha indotto popolazioni e società a rinchiudersi in se stessi e a sviluppare pulsioni protezioniste e tendenze all’esclusione. Lo stesso sviluppo dei sistemi democratici verso l’indebolimento dei meccanismi di rappresentanza è un fattore determinante dell’appannamento del senso di responsabilità dei singoli, dei corpi sociali e delle stesse istituzioni.

Occorre tornare a pensare in grande il Giorno della Memoria per rendersi conto della complessità dei problemi che questo evoca e per cercare di tornare a riprendere il filo del discorso che i superstiti dei lager avevano aperto. Gli sviluppi di questi 70 anni ci insegnano che conservare ben saldo il ricordo di ciò che ha significato la liberazione dai lager rimane un fattore costitutivo del nostro volere essere una società democratica e della necessità di trasmettere alle generazioni future la conoscenza storica e i valori etici e civili che questa comporta, ma anche che la forza della memoria non è da sola sufficiente se non è sostenuta da una profonda convinzione culturale e da azioni politiche che affondino in essa le loro radici.