Vecchie navi da carico che fino allo scorso marzo trasportavano bestiame, ora almeno una volta a settimana, dopo 30 ore di navigazione, scaraventano debilitati rifugiati dallo Yemen in Somalia o a Gibuti. I mercantili partono dal porto yemenita di al-Mokha, a ovest della città di Taiz, dal porto di Hodeida, nell’omonimo governatorato, e dal porto di al-Mukalla, nella regione costiera di Hadhramaut. Seguono la tratta prestabilita nel golfo di Aden.

All’ingresso del Mar Rosso, Bab al-Mandeb è il canale chiave di trasporto che separa l’Africa dalla penisola arabica. Largo solo 30 chilometri nel punto più stretto. Nello stretto ci sono tre principali rotte di contrabbando, tutte poco distanti dal porto di al-Mokha. Rotte non soggette ai controlli di sicurezza per anni, da sempre utilizzate per il traffico di armi, droga, petrolio e persone. Ignote perfino alle navi militari della Coalizione saudita dispiegate nell’area.

Nadheer, un avvocato yemenita, racconta: «Il viaggio può costare dai 100 ai 300 dollari. Anche per i bambini. Le barche trasportano 200 persone e 600 tonnellate di merce». E continua: «Lo Yemen è diventato un luogo difficile da abbandonare. La via di terra per l’Arabia Saudita è bloccata dai ribelli houthi. Le città costiere meridionali presidiate dagli houthi sono inavvicinabili».

I rifugiati sbarcano in Somalia, nei porti di Berbera e Lughaya, nella regione autonoma del Somaliland, o nel porto di Bossaso, nel Puntland, e trovano rifugio temporaneo spesso nei paralizzanti campi spontanei, non ufficiali, dove c’è energia elettrica per appena 8 ore al giorno.

Tra i rifugiati, ci sono anche somali bantu fuggiti venti anni fa dalla spirale di violenza che tuttora ancora devasta la loro terra. All’epoca trovarono casa in Yemen, ma ora il governo somalo di Hassan Sheikh Mohamud ha offerto il suo sostegno alla Coalizione saudita nella lotta contro i ribelli di al-Qaeda guidati dall’emiro Qasim al-Raymi, e contro la minoranza sciita houthi, appoggiata dalle forze fedeli all’ex presidente yemenita Ali Abdullah Saleh e dall’Iran. Dunque la popolazione yemenita che fino a poche settimane fa conviveva con i trapiantati somali, oggi li aggredisce.

I dati dell’Unhcr, l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati, parlano di 28.596 yemeniti arrivati in Somalia, tra cui almeno 12.000 bambini, dall’inizio del conflitto. Nel centro di accoglienza, allestito nel porto di Berbera, uomini, donne e il pianto inconsolabile dei bambini possono sostare solo tre giorni. Ricevono cibo, acqua e cure mediche. Ci sono solo cinque servizi igienici per più di 400 persone. Da Berbera in massa si precipitano nella capitale Hargheisa, dove si accodano alle infinite file delle strutture della Mezzaluna Rossa, per mangiare e per chiedere asilo.

Senza cibo, né scarpe, secondo i dati dell’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni, 23.360 rifugiati sono transitati nel centro di al-Rhama e poi accolti nel campo di Markazi, nella piccola città portuale di Obock, in Gibuti. Su petroliere o mercantili. Senza posti veri. Un commercio fiorente di biglietti e passaporti.

Faaid, un agente marittimo del porto di Berbera, ci dice che «1.325 persone sono arrivate in Somalia e a Gibuti nelle due settimane successive all’inizio del conflitto in Yemen». Le Nazioni Unite parlano di almeno 900 persone arrivate nel Corno d’Africa negli ultimi 10 giorni. 58.234 il totale di arrivi tra Gibuti, Somalia, Sudan e Etiopia. Secondo i doganieri del porto di al-Mokha, più di 150 persone lasciano lo Yemen legalmente ogni giorno. Sono i pescatori con le loro barche o chi ha soldi sufficienti per comprare un posto sui mercantili. E ogni giorno, come merce di contrabbando, più di 400 persone affrontano quel mare, su barche di medie dimensioni. Di proprietà di commercianti o pescatori yemeniti, vengono comprate qualche giorno prima della prevista partenza, da bande di trafficanti.

Tutto inizia in mezzo alle 18.000 persone del campo profughi di al-Kharaz, a 150 chilometri a ovest del porto di Aden. Strade bucate dai mortai. Nella deserta regione del sud dello Yemen, durante la distribuzione di cibo da parte del World Food Programme, quando le persone sono ammassate e le temperature arrivano a 35 gradi, Fadaaq, un ragazzo forse di 19 anni, inizia la “ricerca”. Fadaaq, ci raccontano nel campo, lavora per contrabbandieri migranti in Kuwait. L’obiettivo è di trovare almeno 30 persone per ogni viaggio.

Il trasporto dal campo al porto di al-Mokha è in autobus. Ogni rifugiato paga dai 25 ai 50 dollari, incontrando diversi checkpoint militari sulla strada, frequente target dei miliziani di al-Qaeda.

C’è anche chi, dai quartieri di Crater, Ash Sheikh Outhman, Khur Maksar e Attawahi della città di Aden, cammina a piedi per due giorni interi, fino a al-Mokha. Lo Stato Islamico e al-Qaeda hanno bloccato la maggior parte delle strade tra Sana’a e Aden.

Si aspettano anche 15 giorni nel porto, in attesa di un posto sui mercantili o in attesa di saldare il debito con i contrabbandieri. Si dorme per terra su teli. Si aspetta l’acqua dalle organizzazioni umanitarie. Agenti di polizia, guardie di frontiera e diplomatici fanno finta di non vedere.

Il contrabbando di migranti coinvolge reclutatori, trasportatori, albergatori, facilitatori, esecutori, organizzatori e finanziatori. Spesso i trafficanti sono essi stessi migranti. Spesso i migranti clandestini guidano le barche. Spesso si usano imprese ad alta intensità di capitale per il riciclo dei proventi.

Trecento passeggeri è il massimo per una barca di 17 metri. Ma le barche vengono caricate di 700-800 persone. Su quasi ogni barca la storia è la stessa. Vengono raccolti tutti i telefoni cellulari. Tutti partono senza bagaglio. Hanno diritto a mangiare, bere e andare in bagno fino al momento dell’imbarco.

Ci racconta Reem: «Mi hanno portata in un posto dove ho incontrato altri come me, in viaggio verso la Somalia. In totale eravamo 157. Una parte del viaggio l’ho fatta in piedi, per far posto ai miei figli. Poi sono riuscita a sedermi con le gambe appoggiate al petto. Sono rimasta per più di dieci ore così». Reem ci ha detto che arrivati a Berbera, in Somaliland, hanno spinto tutti fuori dalla barca, in mare. Alcuni sono annegati. Altri sono riusciti a raggiungere la riva. La barca è sparita in pochi minuti tra le onde.

A Mareero, Qaw e Elayo, nella regione somala del Puntland, a Obock, in Gibuti, a Bab al-Mandeb, al largo della città di Taiz, e nel golfo di Aden, l’Unhcr ha registrato il più alto numero di decessi nel Mar Rosso e nel Mar Arabico.