Dai tempi di Kinetta (un colpo di fulmine) sono passati diversi anni (era il 2005), nel frattempo Yorgos Lanthimos è divenuto uno dei protagonisti di quel cinema greco esploso negli anni della crisi – a dispetto della troika – ha vinto il Certain regard di Cannes nel 2009 con Dogtooth, è stato in concorso a Venezia (2011) con Alps. Che il suo sia un cinema di geometrie autoritarie era abbastanza evidente sin dal primo film, al centro c’ è sempre un potere sovrastante spietato e inafferabile, la sfida è trovarne il rovescio laddove appare inaspettato. Con The Lobster, in gara all’ultimo festival di Cannes, il regista greco gira per la prima volta in inglese, con un cast internazionale, Colin Farrell, Léa Seydoux, Rachel Weisz, l’icona dei suoi film Ariane Labed protagonista già in Alps (e sua moglie) e molta musica greca, ma torna sullo stesso terreno: un mondo astratto, metafora del possibile, governato da parole d’ordine a cui si nega una via di fuga.

Ricordate qualche tempo fa le dosi per single al supermercato? Erano state accolte come una grande rivoluzione più che per il risparmio – in realtà erano carissime – per quella sorta di «desacralizzazione» che mettevano in atto nel regno deputato al consumo familiare. Nell’universo di The Lobster sarebbero proibite. Difatti il protagonista (Farrell) quando la moglie lo caccia di casa finisce nell’Hotel gestito da una temibile coppia, un lager di rieducazione per solitari che hanno un tempo massimo per trovare un partner.

Una volta scaduto, se sono ancora soli verranno trasformati in animali. I potenziali compagni come se non bastasse devono avere caratteristiche simili – zoppi con zoppi, miopi con miopi, stronzi con stronzi ecc – e nel soggiorno gli «ospiti» subiscono vari indottrinamenti per indurli ad accoppiarsi – una donna sola viene violentata un uomo solo a tavola muore strozzato ecc – torture, punizioni specie se si masturbano, ma soprattutto sono costretti a dare la caccia ai Solitari.

Guidati da Léa Seydoux questi ultimi vivono nel bosco – spazio di confine con la dimensione animale – rifiutano le regole del mondo-a-coppia ma con lo stesso spirito talebano degli altri: la loro ribellione consiste nel vietare l’amore, guai a innamorarsi o a aiutarsi («se muori muori da solo scavati la tomba» ripete come in un mantra Seydoux). Un casto bacio costa l’infibulazione delle labbra, il sesso la morte.

L’immagine piuttosto esplicita è quella di un mondo senza scampo, dove non si ammettono sfumature o tantomeno confusioni di genere, ma soprattutto nessuna libertà di scelta, cosa che stride naturalmente con il desiderio, e con l’amore le cui logiche non possono (o non dovrebbero) seguire una sola direzione. Lanthimos cita Edipo, e la tragedia nella lente di un Mito contemporaneo sembra ispirare il suo paesaggio, quella foresta in cui gli uomini appaiono come segni di un malessere universale, intrappolati nelle logiche di un neoliberismo che non prevede ormai più una dimensione individuale.

Immagini sontuose, umorismo acido e un senso del grottesco spiazzante (l’inizio del film ha un tocco straordinario), la favola distopica di Lanthimos non lascia scampo: nessuna ribellione, nessun cambiamento appaiono possibili in un reale uniforme che intrappola i personaggi e con essi lo spettatore. Siamo davanti a un film in cui la cifra d’autore esibita dal regista è la sua forza ma rischia anche di scivolare nel manierismo, trappola forse inevitabile per chi si rinchiude in sè negandosi una «terza via»: un oltregenere (o degenere) indispensabile a spalancare lo sguardo.