Il 22 settembre è uscito l’ultimo film del regista italo-svedese Erik Gandini, il documentario La teoria svedese dell’amore (distribuzione Lab 80).
Attraverso una voce fuori campo – è lo stesso regista – siamo testimoni di «un viaggio nei buchi neri della società più indipendente del mondo, quella svedese», «un modello sociale realizzato, che si va affermando in tutto l’Occidente e in cui all’indipendenza dei singoli si accompagnano solitudine e svuotamento delle relazioni». In questo contesto, a partire da un possibile collegamento politico (lo studio del 1972 delle socialdemocrazia svedese, «La famiglia del futuro»), Gandini focalizza la sua attenzione su come oggi ci sia una tendenza verso l’eclissi della coppia (più donatori di sperma, più madri single), verso una maggior difficoltà di inclusione sociale effettiva (soprattutto per gli stranieri), verso un aumento di «morti dimenticati» (specialmente anziani lasciati soli) – ma non mancano esempi di «resistenza» social-affettiva a tutto questo. Il tema che tratta è contemporaneo e potenzialmente estendibile altrove, come se la Svezia fosse una sorta di osservatorio privilegiato. Invece, sul piano della costruzione sembra funzionare come un taccuino di note, meno come «diagnosi». Come si è arrivati a tutto questo? Nonostante la forte influenza storica dei Socialdemocratici, non sembra possibile leggere in modo lineare lo stato attuale come realizzazione di un disegno politico – oppure, se si, occorrerebbe delineare senza equivoci la natura della dottrina di O. Palme. Altre cause allora? A questo punto si direbbe si, sicuramente. È giusta la provocazione di Gandini di mettere in dubbio l’intoccabilità del «modello svedese», ma è altrettanto vero che le relazioni affettive e sociali sono giocoforza, anche, una questione di welfare. Una complessità che, forse, sarebbe stata più interessante vedere affrontata attraverso una antropologia. (g.p.)