Le immagini e le notizie che arrivano dal Cairo, direttamente raccolte per il manifesto con rigore e coraggio dal nostro Giuseppe Acconcia, parlano di morte. In un massacro è sfociato alla fine, del resto così com’era cominciato, l’ultimo atto dei militari golpisti egiziani che il 3 luglio scorso hanno deposto il presidente democraticamente eletto Morsi. Perché un golpe è un golpe è un golpe. Anche se una parte del paese – quella filo-occidentale ma sostenuta dalla petromonarchia saudita – batte le mani “ribelli”. Che altro se non un massacro ci si doveva aspettare? Quando si depone con la forza un presidente eletto, lo si arresta e lo si sbatte in galera con tutti i leader del suo movimento, quando si chiudono tutti i media a lui favorevoli, quando si spara ormai da più di un mese sui manifestanti che lo sostengono? Il tutto ad opera di un esercito che è uno Stato nello Stato, che vive di privilegi ed è finanziato direttamente con un miliardo e 300 milioni di dollari ogni anno dagli Stati uniti. E che si è formato non sui libri di Franz Fanon e Che Guevara ma con gli istruttori statunitensi e sui manuali delle esercitazioni della Nato.
All’alba di ieri le forze speciali egiziane coadiuvate da carri armati e bulldozer dell’esercito hanno attaccato i presidi di massa delle due piazze del Cairo occupate da decine di giorni dalla protesta pro-Morsi dei Fratelli musulmani, sparando direttamente sulla gente. Poi il coprifuoco e il proclama dello stato d’assedio. È stato un bagno di sangue. Su un elemento occorre riflettere: i militari coscientemente non hanno voluto aspettare i tempi della mediazione proposta all’ultimo momento da Ahmed Tayeb, la principale autorità religiosa sunnita dell’Egitto e guida della storica moschea di Al Azhar, che infatti ha condannato l’attacco.

Dal quale prendono le distanze il presidente Mansour e il vice presidente El Baradei – che si sarebbe dimesso per protesta – pure insediati dai militari. Come gli Stati uniti che, sempre più al seguito degli interessi dell’Arabia saudita, ormai vedono l’Egitto sfuggirgli di mano, dopo avere sostenuto Mubarak, poi Morsi, poi i militari golpisti, poi… Ma ora Barack Obama che figura farebbe ad approvare la macelleria che va in onda al Cairo?
Siamo alla conta dei morti civili, donne, vecchi, bambini. Ridicolo e tragico il fatto che fino all’ultimo il governo del prestanome Beblawi e il ministero degli interni e quello della difesa in mano ai militari abbiano insistito a ridimensionare il numero delle vittime a poche decine, mentre i giornalisti internazionali già contavano centinaia di cadaveri in piazza.
Se davvero l’obiettivo dei Fratelli musulmani era il martirio, esso è stato pienamente realizzato dai generali golpisti comandati dall’uomo forte Al Sisi. Se ora per reazione la Fratellanza risponderà con la violenza e con le armi a questa strage, come sta accadendo purtroppo in ogni città egiziana – dove è anche a repentaglio la minoranza dei cristiani copti schierati con i militari – vuol dire che l’esercito golpista ha scelto di mettere in conto la discesa nel baratro. Cioè la possibilità di una guerra civile contro l’islamismo politico fin qui moderato. È una sfida contro la ragione. Perché se l’Egitto, che è il più popolato paese del Mediterraneo con più di 90 milioni di abitanti, diventa una specie di nuova Siria sarà una piramide di sangue e salterà l’intera regione mediorientale. E con essa il mondo intero che ha interessi strategici nell’area. Le conseguenze saranno incalcolabili. Non reggerà più non solo l’ennesimo teatrino dei “colloqui di pace” tra israeliani e palestinesi messi in scena dagli Stati uniti. È in forse la stessa esistenza d’Israele, sempre più integralista e sempre più coinvolta in un conflitto inter-islamico che ormai gli è ai confini e in parte l’attraversa, e che comunque vede lo Stato ebraico come corpo estraneo e nemico giurato.
Le Nazioni unite, ma anche l’Italia e la Francia, rimaste fin qui alla finestra, chiedono agli egiziani di fermare il bagno di sangue. Ma che possono Paesi che hanno smaccati interessi energetici e che hanno consumato la loro credibilità diplomatica nella guerra in Libia prima e nel disastro in Siria poi?