IL cinema contemporaneo è caratterizzato da una spregiudicata flessibilità della cornice schermica: tempi, luoghi e situazioni per relazionarsi con le immagini audiovisive si sono moltiplicati e spostati rispetto alle ritualità tradizionali. Un processo di «espansione» il cui evolversi determina un inevitabile ripensamento della pratica cinematografica che smette di avere rigidi confini, sia fisici che mentali, luoghi e circostanze deputati alla visione, marcati da precise soglie. Il cinema, tra le varie trasformazioni, è sottoposto a una «rilocazione» cioè a una pratica espositiva diversa da quella che aveva come sede la sala cinematografica; e questo comporta nuove modalità di proiezione/presentazione delle immagini in movimento (fino a costruzioni spesso improntate a quella che Philippe-Alain Michaud definisce una «teatralizzazione dello spettacolo cinematografico») più vicine a quelle di tipo esperienziale proprie della galleria d’arte. Non a caso si parla di cinema «esposto», di cinema «installato».

Ne è un esempio la mostra di Diego Marcon, Franti, Fuori!, a cura di Martina Angelotti, in programma fino al 13 novembre (dal lunedì al venerdì; dalle 11 alle 19), allestita negli spazi di Careof all’interno della Fabbrica del Vapore di via Procaccini, 4, a Milano. Concepita in risposta all’invito di Performing Archive, la mostra rappresenta l’approdo del percorso erratico compiuto dall’artista (che, sebbene il suo lavoro sia visibile soprattutto in contesti legati all’arte, proviene dal cinema) all’interno dell’archivio video di Careof, composto, oltre che da tracce di cinema sperimentale, anche da documentazioni di performance, happening ed eventi che insieme ricostruiscono la storia dell’arte italiana e milanese, soprattutto degli anni ’80 e ’90.

Un patrimonio audiovisivo che per Marcon ha rappresentato fin dall’inizio, come dichiarato nelle note realizzate per ATP Diary delineanti il paesaggio concettuale da cui si è sviluppato il progetto, «uno sfondo da cui qualcosa potrà staccarsi, per disporsi e prendere forma su una superficie».
Deciso a non toccare una sola immagine di quei materiali, per l’artista l’archivio rappresenta l’occasione di una personale operazione speculativa: la possibilità di realizzare una mostra «tosta» e «trista», come la faccia di Franti raccontata da De Amicis, «opaca e vischiosa, fatta di segni e di versi, ma tacita, senza parole».

Accolti da un perturbante nano da giardino in formato extralarge, ci si muove, senza indicazioni, tra proiettori sospesi che trasmettono sulle pareti brevi animazioni, a dominante rossa, di teste ciondolanti dal sonno, pensate come loop senza fine; un altro, poggiato per terra, proietta, ininterrottamente, su uno schermo la sequenza di un episodio di Winnie the Pooh in cui Pimpi – il maiale – sveglia di colpo Uffa – il gufo – sbattendo contro la finestra di casa sua. Una traccia sonora accentrante riproduce ripetutamente i versi dei due animali mischiati ai rumori amplificati degli interventi grafici sulla banda sonora ottica delle animazioni.

E in questo gorgo (di sequenze che ripetendosi senza requie riflettono la propria replicabilità) si gioca il senso della mostra; a dichiararlo, del resto, è lo stesso artista: «Tanti continuano a ripetere che il cinema è morto, ma il cinema è una macchina che va avanti da sé, come altre – forse all’interno dell’unica grande macchina, il Capitalismo Spettacolare. Ma forse è proprio all’interno della macchina, come meri ingranaggi, che è ancora possibile sorprendere se stessi. In questo forse risiede l’importanza di un linguaggio, quando tutto è annacquato in una continua promiscuità di medium, stili, pratiche: nel sorprendere sé stessi nel semplice lavorio interno al mezzo – forse nemmeno interno al mezzo, ma nel girare del mezzo in sé». Parole che lasciano intravedere quella «riscoperta dell’esperienza» di cui s’è detto, sicuramente tra i fattori che stanno caratterizzando maggiormente il panorama audiovisivo attuale.