Oggi la Camera è impegnata a ratificare gli accordi intercorsi nel 2015 e 2016 tra i governi italiano e francese per l’avvio dei lavori della sezione transfrontaliera della Nuova linea ferroviaria Torino-Lione.

C’è da non crederci.

Il Paese è in balia di un Governo caricaturale, la crisi economica e le disuguaglianze aumentano (è di pochi giorni fa il rapporto di Eurostat che colloca l’Italia all’ultimo posto in Europa occidentale quanto a entità di salari e stipendi), le «grandi opere» bruciano le risorse necessarie al risanamento di un territorio devastato e incapace di assorbire piogge appena più intense del normale, la credibilità della politica è ai minimi storici e, a fronte di ciò, un Parlamento non rappresentativo (perché eletto con una legge incostituzionale) si accinge ad approvare ulteriori spese insostenibili, inutili e dannose.

Superfluo dirlo: quando gli interessi economici e finanziari premono, non c’è «navetta» né «bicameralismo paritario» che rallenti i lavori parlamentari.

E altrettanto superfluo è sottolineare che il partito del cemento e i suoi sponsor (Repubblica su tutti) si scatenano in pressioni scomposte e annunciano trionfanti che a breve «non resterà che avviare i bandi di gara per far partire le ruspe e le frese che scaveranno il tunnel di base più lungo del mondo».

Ovviamente non è così: l’effettivo inizio dei lavori richiederà anni e gli accordi politici sono sempre suscettibili di modifiche e cancellazioni, soprattutto in caso di persistenza della crisi economica e di cambiamento del quadro politico (in Italia come in Francia, già oggi assai tiepida sull’opera).

Ma non c’è dubbio che la ratifica degli accordi segnerebbe un nuovo passo verso quella che appare sempre più la versione ferroviaria della Salerno-Reggio Calabria. Non è dunque inutile, almeno a futura memoria, ricordare le ragioni che ostano alla ratifica e che consiglierebbero alla Camera, quantomeno, una qualche prudenza.

Ci sono ragioni generali, note da tempo, che riguardano la tutela dell’ambiente e della salute della popolazione, l’inutilità della nuova linea, lo spreco di risorse in periodo di gravissima crisi economica, l’incertezza sui costi complessivi, l’irrazionalità dell’assunzione da parte dell’Italia della maggior parte delle spese per la tratta transfrontaliera (pur incidente per 45 km in territorio francese e solo per 12 km in territorio italiano), l’aggiramento di fatto della normativa antimafia nella aggiudicazione degli appalti (nonostante un escamotage finale del tutto inidoneo a modificare il quadro dei trattati) e molto altro ancora.

Basterebbe, ovviamente. E alla grande. Ma ci sono anche ragioni specifiche riguardanti la legittimità stessa della ratifica.

Due su tutte.

Anzitutto c’è, nei trattati di cui si discute, una violazione dell’accordo intergovernativo Italia-Francia del 29 gennaio 2001, costituente l’atto normativo fondamentale relativo alla Nuova linea ferroviaria, il cui articolo 1 prevede esplicitamente che la realizzazione dell’opera è subordinata alla imminente saturazione della linea storica.

Orbene, tale condizione è irrealizzata e ben lungi dal realizzarsi posto che la linea esistente è attualmente utilizzata al 16 per cento della sua capacità e l’entità delle merci trasportate è in costante calo (attestandosi oggi su un terzo di quella raggiunta nel 1997).

In secondo luogo, c’è una violazione, altrettanto clamorosa, della convenzione di Aarhus del 1998, sottoscritta dal nostro Paese, concernente, tra l’altro, la «partecipazione del pubblico ai processi decisionali in materia ambientale».

L’articolo 6 della Convenzione vincola, infatti, gli Stati contraenti a inserire, nell’iter procedimentale in materia ambientale, «termini ragionevoli, in modo da prevedere un margine di tempo sufficiente per informare il pubblico e consentirgli di prepararsi e di partecipare effettivamente», e a far sì che «la partecipazione del pubblico avvenga in una fase iniziale, quando tutte le alternative sono ancora praticabili e tale partecipazione può avere un’influenza effettiva».

Orbene, nulla di ciò è avvenuto nella fase che ha preceduto i trattati, come accertato, tra l’altro, nella sentenza 8 novembre 2015 del Tribunale permanente dei popoli.

Basta ricordare, tra l’altro, che l’Osservatorio tecnico sulla Torino-Lione, istituito dal governo italiano come «luogo di confronto» di tutte le realtà interessate sui necessari «approfondimenti di carattere ambientale, sanitario ed economico» è, a partire dal gennaio 2010, limitato ai soli «comuni che dichiarino esplicitamente la volontà di partecipare alla miglior realizzazione dell’opera» (sic!), con la conseguenza che non ne fa parte la stragrande maggioranza degli enti locali della Val Susa e che, da ultimo, ne è uscito anche il comune di Torino.

Dunque la ratifica dei trattati in discussione formalizzerebbe, ancora una volta, l’esclusione, finanche in termini normativi, della partecipazione prevista dalla convenzione di Aarhus.

In una situazione siffatta un Parlamento rispettoso delle regole e del comune «buon senso» si concederebbe, almeno, una pausa di riflessione.

Non accadrà. E ciò la dice lunga – se ancora ce ne fosse bisogno – sullo stato delle nostre istituzioni e sulla loro distanza dai bisogni e dalle richieste dei cittadini.