Per chi non è di qui, Vercelli è soltanto una stazione di sosta lungo la linea ferroviaria Torino – Milano, o viceversa. Italo e Frecciarossa la ignorano, lasciandosela in un attimo alle spalle. I pendolari contano i minuti di sosta, sperando che altri non si aggiungano al loro calvario quotidiano. Per chi non è di qui, le risaie allagate e verdi tra Vercelli e Novara, o viceversa, sono panorama invisibile dal finestrino del treno. Troppa la velocità di Italo e Frecciarossa, troppa la stanchezza che fa chiudere gli occhi ai pendolari. Così, quella città circondata da paesaggi che tra fine maggio e luglio la fanno somigliare a un Estremo Oriente nel Nord Ovest d’Italia, ha finito per trasformarsi in un mondo a parte, esplorato da pochissimi turisti, complice un clima troppo severo in inverno e impietosamente umido durante l’estate. Eppure succede che all’improvviso, nell’aprile 2014, Vercelli assurga all’onore delle cronache nazionali. Giornali e televisioni raccontano della protesta dei risicoltori di fronte all’importazione senza regole e barriere economiche del bianco chicco dalla Cambogia. Rispetto all’anno precedente, le cifre parlano di un 50% in più. I rappresentanti della categoria vanno a Roma per discutere con i nostri politici, poi a Bruxelles per continuare a farlo con quelli della politica europea. La curiosità, allora, bussa alla porta. Cosa significa esattamente la parola ’riso’ nel Vercellese? Come si traduce in termini storici, economici, sociali? Chi erano quelle donne chine sull’acqua, le mondine, che cantavano in coro, lavorando, ‘Se otto ore vi sembran poche’, oppure ’Sciur parùn dale bele braghe bianche’ ? Il calore estivo ti si appiccica addosso appena esci dall’auto e dall’involucro dell’aria condizionata. A passo lento raggiungi piazza Cavour, la piazza principale della città. L’appuntamento con l’ingegner Luca Bussandri, direttore generale dell’Associazione d’Irrigazione Ovest Sesia, ti lascia il tempo di constatare, con sorpresa, la bellezza del centro storico di Vercelli: i palazzi antichi, i portici, le vie e la sinagoga del Ghetto, i caffè d’epoca… La sede dell’Associazione ha un’eleganza austera e sabauda, riassunta negli arredi e nei decori del salone dove ti fanno accomodare. Ed eccolo, Bussandri, giovane e simpatico. Si siede e racconta del riso servendosi di numeri, geografie del territorio, esempi in grado di chiarire le cose al profano di turno. Una data, anzitutto: 3 luglio 1853, quando nacque, per iniziativa di Camillo Benso conte di Cavour, l’Associazione di Irrigazione dell’Agro all’Ovest della Sesia. Da fine diplomatico, grande economista e importante proprietario terriero, il tessitore dell’Unità d’Italia era riuscito a convincere 3500 agricoltori a consorziarsi per gestire collettivamente il patrimonio idrico, controllarlo, ottimizzarne il consumo, debellarne i furti. L’idea dell’Associazione sottendeva un progetto di dimensioni ancora oggi titaniche: creare un sistema di irrigazione che, attraverso tre canali, beneficiasse dell’acqua della Dora Baltea, del Po e del Sesia, e si articolasse in navigli, navigliacci, rogge, fontanili, coinvolgendo anche il Novarese e il Pavese. Impossibile su un territorio che l’occhio umano vedeva perfettamente pianeggiante? No, e l’aveva dimostrato, in cinque anni di misurazioni, dal 1841 al 1846, percorrendo palmo a palmo i settanta chilometri che separano il paese di Crescentino dal Sesia, l’agrimensore Francesco Rossi. Il dislivello tra Dora Baltea e Ticino era pari a 24 metri e 80 centimetri, e ad ogni chilometro l’altitudine decresceva di 35 centimetri. Due canali esistevano già, quello di Ivrea (disegnato da Leonardo) e quello del Rotto. Il terzo era da fare, e sarebbe stata l’opera fondamentale, la più imponente. Il progetto presentato da Rossi gli venne di fatto sottratto e copiato dall’ingegner Carlo Noé con la tacita approvazione di Cavour, che avversava l’agrimensore perché, nel suo disegno, il canale doveva passare attraverso la tenuta di Leri, proprietà di Camillo. Le prime due Guerre d’Indipendenza impedirono al parlamento sabaudo di erogare i fondi necessari ad avviare i lavori, Cavour morì nel 1861. La prima pietra fu posata il 10 giugno 1863, a Chivasso. Tre anni dopo, il 12 aprile 1866, l’inaugurazione. L’apertura del canale di Suez avverrà nel 1867. La realizzazione del canale poi intitolato al Grande Tessitore, e delle strutture distribuite lungo gli 83 chilometri del suo corso, aveva richiesto l’impiego di 120 milioni di mattoni cotti sul posto in 76 fornaci e di 14mila operai. La gente, durante quei tre anni, aveva eletto i cantieri a meta preferita delle gite fuori porta; le coppie li sceglievano come luogo per sposarsi, il loro sfondo era presenza in centinaia di fotografie che ritraevano gruppi sorridenti.

Novemila chilometri di canali, rogge, navigli, fontanili… Ingegner Bussandri, cosa significano in numeri idrici? «Novantaquattro metri cubi al secondo di acqua per 80mila ettari di coltivazioni totalmente irrigati. A differenza di quanto comunemente si pensa, i 10/15 centimetri in cui la pianta del riso è immersa hanno soltanto un compito di sostegno termico, di protezione. E, sempre a differenza di quanto comunemente si pensa, la quantità liquida più importante non è quella in superficie, ma sotterranea. Una riserva di milioni e milioni di litri. Per spiegare il meccanismo che governa il sistema di irrigazione, basta prendere ad esempio una spugna secca messa sotto un rubinetto. All’inizio la spugna assorbe, poi raggiunge un equilibrio e infine, a rubinetto chiuso, restituisce l’acqua. Nel nostro caso, i metri cubi distribuiti agli agricoltori sono 140 al secondo. Quando la campagna di irrigazione delle risaie termina, le risorgive continuano a restituire per un mese e mezzo, due mesi. Questo fa sì che l’accumulo di riserve dei tre fiumi scongiuri la siccità dei territori. Tutti e tre insieme, i fiumi non tradiscono mai. Vorrei poi aggiungere che i tecnici, 170 stabili, dislocati in ogni angolo della provincia vercellese, intervengono anche per smaltire e convogliare l’eccesso di piogge, come è accaduto in queste settimane».

L’auto sfila tra le risaie verdi dell’Estremo Oriente d’Italia. L’acqua brilla al sole e sussurra agli uomini e alle donne che le pedalano accanto in bicicletta. Molte cascine, viste dalla strada provinciale, sembrano galleggiare su piccoli laghi; altre, più appartate e distanti, somigliano a oasi di mattoni e pietra. Una convivenza perfetta tra opere dell’uomo e della natura, equilibrata, armoniosa da secoli. Un ecosistema cresciuto intorno al riso, che Bussandri definisce impossibile da convertire se si dismettesse la coltura, pena il rischio di carenza idrica e l’inaridimento di una superficie enorme. Vercelli e la ‘minaccia’ cambogiana. Quirino Barone, presidente di Promoriso, che si occupa della promozione del riso nel Vercellese e Novarese, spiega «L’Italia resta leader di mercato con circa il 50% della quota europea e una media di 50 ettari di coltivazioni per ciascuna delle quattromila aziende. Ma sono cresciuti la Spagna, il Portogallo, la Grecia, si affaccia l’Est. E se l’Oriente è da sempre il maggior produttore mondiale, segnali di crescita arrivano dall’Africa e dal Sud America. Il riso viene importato in Italia senza porre limiti alle quantità, senza dazi, senza richiesta di investimenti imprenditoriali sul posto». Gli fa eco Piero Rondolino, risicoltore da oltre quarant’anni, e da una ventina esportatore di un Carnaroli pregiato in una cinquantina di Paesi, Hong Kong compresa «Guardando alla globalizzazione, certo non si può pensare di lavorare godendo di un regime protezionistico. Nè si può ostacolare il Terzo Mondo, sarebbe eticamente sbagliato, nell’esportare le uniche ricchezze a sua disposizione, quelle della terra. Preso atto che un chilo di riso che arriva da noi, non solo dalla Cambogia, ha prezzi molto più bassi (meno della metà), prima di tutto per via del costo della mano d’opera, le soluzioni sono da cercare a Roma, e non a Bruxelles, dove il problema è praticamente ignorato. Fare dei nostri politici al parlamento europeo degli ambasciatori senza potere è inutile. I problemi si devono risolvere qui, varando leggi che intervengano sui costi di gestione, sui contributi, sugli oneri fiscali. Accanto a ciò occorre incentivare l’esportazione del riso di qualità come avviene da tempo per il vino e per altri prodotti del vero Made in Italy, non certo quello del pomodoro Made in China spacciato come italiano. Saranno cifre magari piccole all’inizio, ma che potranno crescere fino a diventare interessanti».

A Rondolino, adesso, chiedi di finire la conversazione girando lo sguardo verso il passato. La sua cascina, la Colombara, nei pressi di Livorno Ferraris, si porta sulle spalle centinaia di anni di vita, nobile signora che nulla fa per nascondere la sua età, anzi ne va orgogliosa. Poco distante, un basso e solitario fabbricato rurale. Qui dormivano le mondine al termine di ogni giorno dei quaranta di lavoro. Il portone dà accesso al piano terra e conduce ai piedi di una scala centrale. Memoria legata alle lotte per le ore di lavoro e per il salario, una falce e martello ancora nitida, dipinta sui muri scrostati. Il pianerottolo in cima alla scala si divide in due ambienti, uno a destra, l’altro a sinistra. Sono immensi cameroni che ricevono luce da grandi finestre. In uno dei due, Piero ha voluto ricostruire il dormitorio, tutti pezzi autentici. Due file di brande messe l’una di fonte all’altra occupano la lunghezza dell’ambiente, un angolo è attrezzato con un lavandino, un altro per cucinare. Sopra, di fianco, accanto a mobili di fortuna ci sono valigie, suppellettili, pentole, padelle, scarpe. Sulle coperte e i cuscini delle brande, cappelli di paglia, vestiti, borse, borsette. Lo sguardo si ferma su una copia della rivista di fotoromanzi Bolero, che dagli anni ’40 in poi del secolo scorso contese il primato delle vendite alla concorrente Grand Hotel. Sognavano storie d’amore con bei ragazzi alla Raf Vallone e Amedeo Nazzari, le mondine «Altro che sognavano! Ce li portavano via, i ragazzi!». La voce e la risata di Maria Rosa Marchese risuonano forti nel camerone. Lei era una locale, una mondina del posto, nelle risaie ci è andata appena terminata la quinta elementare e ha continuato fino all’avvento dei diserbanti. Racconta «Avevo dieci anni, mi presero per portare le botticelle d’acqua alle ragazze che lavoravano, poi ho cominciato anch’io a mondare. Facevo un’ora in meno, perché davo una mano a pelare le patate e a pulire le verdure in cucina». I ricordi di Rosa sono ricordi di sanguisughe che si attaccavano alle gambe, di bisce d’acqua repellenti, di insetti che mordevano provocando un bruciore fortissimo. Le sue parole somigliano al copione di un film «Le forestiere, come le chiamavano tutti, scendevano dai treni che arrivavano soprattutto dall’Emilia, poi salivano sui carri per andare alle cascine. Lì firmavano il contratto e ricevevano un cappello per il sole e il chinino contro la malaria. A noi locali bastava un’ora di bicicletta ed eravamo sul posto di lavoro». Quanto guadagnava una mondina? Rosa scuote la testa e si lascia andare a un sospiro eloquente «Cinque lire e un chilo di riso per dieci ore (negli anni ’50, ndr). La fatica era tanta, ma c’era anche tanta allegria. Nei quaranta giorni si vedevano centinaia di donne piegate sulle piantine con i cappelli in testa. Lavoravano e cantavano in coro. Durante la sosta del pranzo le forestiere raccontavano pettegolezzi e fatti divertenti sui loro paesi. Venivano in risaia per guadagnare soldi e per starsene un po’ lontane da casa». Cosa si mangiava a pranzo e a cena ? «Riso, riso, riso. Pasta la domenica, ogni tanto la frutta raccolta sugli alberi. Il brodo fatto con le ossa del maiale, che ricordava il sapore della carne, era un lusso. La sera, chi non andava a dormire correva a ballare. C’era sempre una fisarmonica che suonava, e ai ragazzi del posto le mondine piacevano molto. Li vedevi passare tra le risaie in bicicletta e in lambretta, guardavano le forestiere, ci parlavano, davano appuntamento. Molte si sono sposate e sono rimaste qui». I racconti di Rosa, mondina al tramonto di una vera e propria epopea iniziata a fine ’800, poggiano su lotte che hanno fatto la storia del lavoro. Lo spiega con asciutta chiarezza Piero Rondolino «Uno sciopero in risaia era ben diverso da uno sciopero in fabbrica. Le braccia incrociate durante i quaranta giorni potevano mandare in crisi un intero raccolto. E lo spirito di coesione era fortissimo». Nel 1906 le forestiere del Vercellese ottengono le otto ore. Ci vorranno altri dodici anni perché diventino una conquista italiana. I diserbanti hanno cancellato sanguisughe e parassiti insieme a un mestiere, ma questo non vale per la memoria delle mondine. Memoria liquida che galleggia sull’acqua, che si insinua nel caldo appiccicoso. Memoria che canta ai canali, alle rogge, ai navigli, ai fontanili ’Se otto ore/ vi sembran poche/andate voi a lavorar’.

BOX LIBRO

La cascina della Colombara è stata scelta dal maestro delle fotografia Gianni Berengo Gardin come set per realizzare il libro Il racconto del riso, pp. 312, € 69, Edizioni Contrasto, splendide immagini in bianco e nero. Due anni di scatti, durante i quali Berengo Gardin è riuscito a far viaggiare a ritroso il tempo e a riportare alla luce il microcosmo esemplificativo della Colombara. in un gioco raffinato di dettagli, scorci, volti, istanti. Il tutto fissato su pellicola senza che mai venga il sospetto della messa in posa o dell’artificio. Il bianco e nero accresce la suggestione dei paesaggi rurali, sottolinea con straordinaria efficacia la precarietà del dormitorio, accresce l’intensità degli sguardi di uomini e donne del Vercellese, trasforma in strane presenze gli attrezzi nascosti nei magazzini e nei depositi. Non facilmente reperibile in libreria, il volume si può acquistare sul sito dell’agenzia Contrasto e su Amazon. Gli appassionati di fotografia, ma non solo, ne apprezzeranno la grande poesia.