«Gli attacchi terroristici in Turchia non sono separati da quanto accade nella regione, specialmente in Siria e Iraq». Le parole che ieri il presidente Erdogan ha affidato a un comunicato dopo l’attacco a Kayseri sono assolutamente condivisibili. Peccato che dimentichi di dire che sono l’effetto di quanto Ankara fa da anni in Medio Oriente, guerra senza quartiere al popolo kurdo e politica di potenza per la creazione di un moderno sultanato.

A una settimana dalla doppia esplosione allo stadio del Besiktas a Istanbul, ieri un’autobomba ha centrato un autobus militare nel centro del paese: 14 soldati morti, 56 feriti. A poca distanza sta l’università di Erciyes, chiusa di sabato. Un fatto che fa pensare all’intenzione di non compiere una strage di civili, marchio di fabbrica dell’Isis.

Per ora non ci sono rivendicazioni e lo stesso Erdogan ha parlato genericamente di «organizzazione separatista». Possibile che si tratti di nuovo del Tak, gruppo kurdo nato dentro il Pkk ma poi fuoriuscito per divergenze di visione sulla lotta armata.

Dopo l’esplosione decine di persone hanno assaltato la sede dell’Hdp (Partito Democratico dei Popoli) a Kayseri, dato alle fiamme gli interni e rimosso la targa all’esterno sotto lo sguardo della polizia dispiegata fuori. L’assalto – secondo fonti locali perpetrato da fascisti legati ai Lupi Grigi – è lo specchio della polarizzazione generata dal governo turco.

Gli arresti e le accuse di terrorismo contro l’Hdp moltiplicano il livello di violenza: se dopo il tentato golpe del 15 luglio squadracce di sostenitori dell’Akp si impadronirono delle strade alla caccia di “traditori”, ieri è toccato di nuovo al partito di sinistra.