Il tredicesimo festival della Fotografia è un puzzle, una specie di ragnatela costruita dalle immagini degli autori selezionati da fotografi, critici, antropologi, editori. Tassello dopo tassello si narra il ritratto come genere principe, quell’accanirsi intorno all’identità e alle sue trasformazioni che ha impegnato gli artisti di tutti i tempi, a partire dalla dimensione magica sprigionata da quel «doppio» sconcertante rubato alla realtà dall’evanescenza della pellicola. Al Macro, accolgono il visitatore una serie di personali a scatola cinese, con alcune gemme che brillano e catturano lo sguardo, come la serieMy Last Day at Seventeen, in cui Doug Dubois «ci mostra il dramma estatico nascosto dietro la vita di tutti i giorni dei ragazzi irlandesi», come scrive il curatore-fotografo Alec Soth.
Non sempre, però, il ritratto apre ad altri mondi, né solleva interrogativi che movimentano la visione; a volte, il tema portante risulta interpretato alla «lettera», diviene una presenza tautologica, priva di rimandi e risonanze emotive, ma in una mostra modello matrioska, le sorprese non possono mancare.
È il caso dell’incontro inaspettato con i volti degli anarchici italiani provenienti da vecchi e dimenticati libroni dell’Archivio di Stato (cui si accompagna la personale Conflitto e identità di Adam Broomberg & Oliver Chanarin che ritrae centoventi cittadini moscoviti attraverso la tecnologia del riconoscimento facciale in aree a grande densità di folla). Nelle teche del museo vengono proposte le immagini segnaletiche delle questure dei cosiddetti «anarchici», (e nei cassetti anche i volantini, le lettere, i documenti di una «caccia» che si era inasprita molto dopo l’Unità d’Italia) pescando dalla banca dati dell’Archivio che, con il progetto di ricerca diretto da Eugenio Lo Sardo e coordinato da Manola Ida Venzo, ha riunito insieme le fotografie «criminali» che vanno dal 1870 alla vigilia della Prima guerra mondiale.
C’è di tutto, in realtà: la presenza a Roma di anarchici e socialisti, documentata dal cospicuo numero di pagine dei faldoni, si confonde con altre personalità non politicizzate, totalmente outsider (come i vagabondi): l’idea istituzionale, infatti, era quella di colpire chiunque avesse un comportamento anarcoide, non riconoscendosi né partecipando alla formazione di quella nuova Italia nascente. Antagonista è anche un mendicante, un senza tetto, bollati come non cittadini. Interessante dunque, a una lettura più profonda, lo spaccato del paese «ribelle» che ne fuoriesce: gli aderenti all’anarchia – o almeno considerati colpevoli di esserlo, sono soprattutto braccianti, contadini, analfabeti, casalinghe, classi subalterne (al nord il movimento anarchico entrerà in fabbrica) che si emancipavano attraverso una lotta autodidatta – anche nella produzione degli opuscoli – e spesso individualista. La rivendicazione era quella delle terre incolte che avrebbero dato lavoro e sfamato molte famiglie. Tutti comunque erano costretti a un nomadismo esistenziale per sfuggire a un soffocante controllo della polizia e, sovente, alla miseria economica, migrando in Europa e spostandosi continuamente per far perdere le tracce del loro passaggio.
Frontali, occhi sbarrati, vestiti spesso di stracci o con stoffe di povera fattura, i ritratti degli anarchici nel «database» di prefetture e questure raccontano di un’Italia posta in ombra da molta della retorica sull’Unità e, non a caso, molti di loro sono nel pieno dell’adolescenza, con un’istruzione di grado elementare, ma pronti ad azioni dimostrative per sconfiggere la monarchia e le ingiustizie sociali.
La stessa Roma che ospita la mostra, tra l’altro, è anche la città dove agì Pietro Acciarito con un attentato andato a vuoto contro Umberto I. Con il suo pugnale sfoderato, mancò il bersaglio e venne travolto dalla carrozza reale. Arrestato, finì i suoi giorni in carcere, morendo nel 1943.