Allarme rosso a casa Sel. Il partito renziano ’ della nazione’ apre le porte a sinistra e a destra ma le sbarra, stavolta con doppia mandata, alla coalizione. La ’svolta renziana’ dell’Italicum, con l’attribuzione del premio di maggioranza alla lista, cambia le carte. Non tanto perché certifica la morte della (ex) coalizione di centrosinistra. Di questo decesso i vendoliani sono consapevoli da tempo. Il punto è un altro. Con questa nuova riforma elettorale il partito di Alfano può, persino deve, avvicinarsi al Pd. Forse già a partire dalle regionali di primavera. Quelle dove fin qui la coalizione di centrosinistra è stata quasi ovunque a prova di bomba. Un’avvisaglia di quello che potrebbe succedere si è avuta in Calabria: l’Ndc ha chiesto di entrare in coalizione e in caso contrario un gruppetto di senatori calabresi, la corrente dell’ex sottosegretario Gentile, ha minacciato di togliere la fiducia a Renzi. Nicodemo Oliviero, il candidato Pd,si è opposto e ha messo sul piatto le sue dimissioni. Ovvio: l’Ndc calabrese è il partito dell’uscente (perché condannato) Scopelliti. Ma nelle altre regioni, in primavera, le cose potrebbero andare diversamente. Gli alfaniani potrebbero chiedere di riprodurre l’alleanza di Palazzo Chigi. In Campania il Pd già oggi non lo esclude.

Il guaio dunque è all’orizzonte, anche se in Sel ancora nessuno lo nomina. «Si apre un problema di prospettiva e di quadro politico», spiega Nicola Fratoianni convocando precipitosamente la direzione del partito per discutere (a sua volta) dell’esito della direzione del Pd. Il coordinatore di Sel non spinge il ragionamento fino alle regionale. Ma ammette: «Noi non siamo al governo perché c’è Ncd. Se il partito di Alfano entra in un rapporto strutturato con il Pd per noi ha un chiaro significato politico: siamo radicalmente alternativi al Nuovo Centrodestra». Insomma Sel dovrebbe dire addio anche governi regionali.

Il piano B, in realtà, c’è già ed è quella la proposta di «coalizione dei diritti e del lavoro» che il 4 ottobre ha portato in piazza insieme Vendola, Landini e Civati. Ora Sel punta sugli effetti del combinato disposto del nuovo «partito della nazione» e della nuova fiducia sul jobs act che Renzi chiederà alla camera, certificando di nuovo che i parlamentari dem non toccano palla neanche in parlamento.
Il malumore di Stefano Fassina si aggrava ogni giorno: «Il partito non è un contenitore indifferenziato. Per me deve stare dalla parte delle persone che lavorano, dalla parte di chi nel mercato del lavoro è più debole», ha detto a Repubblica. La tendenza al bipartitismo non convince neanche un ulivista come Franco Monaco: «Già è opera impegnativa fare sintesi tra le attuali anime del Pd. Alla cui sinistra sempre vi saranno pezzi di società e altri attori politici. La politica italiana ha una lunga tradizione pluralistica. La vocazione maggioritaria non va confusa con velleità totalizzanti».

Non sarà il caso degli ex prodiani, ma certo Sel scommette sulle defezioni al partito della nazione. Anche per evitare che la porta sbattuta da Renzi non la spinga a chiudersi in una ridotta minoritaria fin qui evitata come la peste. Per Vendola un «chiarimento» con la Lista Tsipras è ormai nelle cose. In concomitanza con il corteo Cgil l’Altra Europa renderà pubblico un manifesto di rilancio della sua azione politica. La scommessa è che le due ripartenze si incrocino, almeno in parte.

Sel guarda innanzitutto a Civati che però continua la battaglia interna. Ma a Bologna la sua componente perde pezzi. Dopo Cecilia Alessandrini, la segretaria dell’ex circolo di Prodi, in questi giorni lasciano il Pd altri esponenti locali dell’area. Dall’altra parte, Sel vuole tenersi ancorata al sindacato e soprattutto all’invocatissimo Landini. Solo così ha una speranza di comporre un fronte di sinistra capace di reggere l’urto di Renzi. Che a sua volta è deciso a inglobare il possibile da quella parte. E il resto spianarlo.