Elisabeth Beck-Gernscheim ha una formazione culturale che nelle facoltà italiane potrebbe essere considerata eccentrica, anche se ormai la transdisciplinarietà tra filosofia, sociologia e psicologia comincia ad essere presente. Almeno tra chi riesce a superare le forche caudine dei tagli alla ricerca scientifica, che caratterizza da oltre un ventennio l’Italia.
Apprezzata studiosa sull’«istituzione famiglia», è docente da molti anni presso l’Università di Monaco. In Italia è stato tradotto solo il volume scritto assieme a Ulrich Beck, teorico della «società del rischio», nonché suo compagno di vita (L’amore a distanza, Bollati Boringhieri). Elisabeth Beck è stata ospite a Pordenonelegge. Ed è nella città friulana che è avvenuta l’intervista.

Il suo nuovo libro «L’amore a distanza», scritto con Ulrich Beck, è un’analisi ricca e sfaccettata dello scenario, profondamente cambiato, delle relazioni d’amore nel mondo globalizzato. Esamina le modificazioni che si sono prodotte, i rischi insiti nei differenti codici culturali di cui, il più delle volte, si è ignari, i paradossi e le opportunità inattese che offrono per alimentare la mixofilia, cioè il piacere di incontrare e interagire con chi è diverso da noi. Lei scrive di «famiglie globali». Cosa intende con questa espressione?

Il problema, quando si parla delle nuove configurazioni familiari che coinvolgono appunto l’amore a distanza e l’intersecarsi del Primo e del Terzo Mondo, è la focalizzazione su ambiti specifici come le coppie binazionali o le adozioni transnazionali. Le famiglie globali coinvolgono questi ma anche molti altri aspetti e a noi interessava sviscerare, sullo sfondo di un quadro drammaticamente diseguale, l’interconnessione di tutte queste tematiche: per descriverle, dalle «famiglie globali multilocali» in cui i partner vivono in nazioni o continenti diversi ma condividono la stessa cultura, alle «famiglie multinazionali o multicontinentali» in cui le coppie vivono insieme ma i cui membri provengono da culture differenti.
Ma anche per cercare di comprendere se tutti gli sforzi e spesso le sofferenze a cui si assoggettano i protagonisti di queste nuove costellazioni familiari contengano il germe di un miglioramento della salute del nostro mondo.

Il «quadro drammaticamente diseguale» che menziona è reso con acutezza quando parla dei trapianti di organi dei poveri del mondo in corpi dei ricchi che possono comprarli, in una «moderna forma di simbiosi» in «paesaggi corporei degli individui» dove «si fondono ’razze’, classi, nazioni e religioni», con i «corpi dei ricchi (che) si trasformano in patchwork composti artificialmente, mentre quelli dei poveri diventano magazzini di ricambio». O quando descrive le donne che devono abbandonare i loro figli e mariti per andare in un altro paese per prendersi cura di figli di persone agiate. Come si può immaginare che questo specchio del capitalismo globale possa migliorare il mondo in cui viviamo?

L’Occidente, come è noto, preferisce in prevalenza non vedere le condizioni di povertà, instabilità, tensioni e guerra in cui vivono tantissimi abitanti del pianeta, e mentre, prescindendo dai fascismi che ricominciano a rispuntare in Europa come conseguenza della crisi e del risentimento che suscita, siamo tutti a parole favorevoli all’uguaglianza e all’apertura, continuiamo a costruire fortezze per proteggerci dalle minacce locali (che spesso assumono le sembianze di uno straniero) e rinsaldiamo i confini dei nostri paesi per impedire che «gli altri» vi entrino, o che ne entrino troppi.
In realtà, per un verso, mentre si proclama la fine del cosmopolitismo, che si occupa di norme, noi confidiamo nella cosmopolitizzazione, cioè l’interdipendenza non solo economica e politica, ma anche etica tra singoli, gruppi e nazioni, che si occupa di fatti e che si sviluppa dal basso e dall’interno, in ciò che avviene quotidianamente, e che spesso resta inavvertita. Per esempio, le donne che dal Sud del mondo arrivano in Occidente, prendono atto di una tangibile possibilità di vivere il rapporto con l’uomo su un altro piano, molto meno avvilente per loro.

Pare però che l’Occidente, anche nelle relazioni amorose, si stia avvitando su se stesso in una dimensione individualistica che prescinde dalle «persone», dove il verbo «per-sonare» implica il «sonare attraverso» altre persone, intendendo la libertà come un qualcosa che si realizza insieme agli altri, come scrive Magatti nel suo ultimo libro «Generativi di tutto il mondo, unitevi». Jacques Attali nel 2007 ha pubblicato « Amours», in cui esaltava l’amore multiplo, la poliunione, la polifedeltà e immaginava un futuro di relazioni aperte in cui la bisessualità sarebbe la norma, un netloving in cui «personne n’appartiendra à personne». Ma il «nostro» mondo è solo un ottavo del mondo intero, e altrove il desiderio di una famiglia stabile, di un luogo dove sentirsi davvero «a casa» è particolarmente sentito…

Ogni movimento implica una bidirezionalità, e certo le trasformazioni avvengono attraverso un reciproco condizionamento. Il rispetto e l’onore, che governano le transazioni e gli equilibri di tanta parte del Sud del mondo, sono stati smarriti nella sfrenatezza individualistica della nostra civiltà, ma grazie alle nuove rappresentazioni che emergeranno potremo forse tornare a considerarli valori fondanti.

Sono numerosissimi gli esempi letterari che punteggiano la sua ricerca sociologica, etnografica e antropologica. Si impara molto dal romanzo di Mohsin Hamid «Il fondamentalista riluttante», non solo rispetto allo scontro di civiltà e all’«inversione biografica» di cui lei parla nel libro, ma anche rispetto alla relazione del protagonista con la ricca e fragile ragazza americana di cui si innamora. Zygmunt Bauman sostiene nella sua ultima opera «La scienza della libertà» che la letteratura è una sorella della sociologia. Può essere preziosa perché le permette di cogliere quegli elementi dell’esperienza soggettiva che sono costitutivi del nostro essere nel mondo e che finirebbero altrimenti nel dimenticatoio qualora ci si limitasse ad analisi quantitative puntuali quanto aride. È d’accordo con lui?

Certamente. Infatti, fin dal primo capitolo, puntello il mio studio menzionando tre romanzi che sono diventati dei best-seller e che rendono più vivido il mio discorso. Il primo, di Marina Lewycka, che riprendo poi nel quinto capitolo per parlare delle migranti che cercano marito in paesi più fortunati, rende con evidenza sensibile «l’altra faccia della luna» dell’emigrazione femminile, volitiva e rapace, attraverso la storia di una bellissima donna ucraina di 36 anni che sposa un inglese ottantaquattrenne e ricorrendo alle sue affilate armi di seduzione lo spreme come un limone finché il suo patrimonio si esaurisce e con esso finisce anche il matrimonio.
Il secondo, di Betty Mahmoody, è la storia autobiografica di una donna del nordamerica che sposa un iraniano e si lascia convincere da lui a seguirlo nel suo paese d’origine con la figlia per ritrovarvisi sequestrata, defraudata di qualunque libertà d’espressione, finché dopo un anno e mezzo non riesce a fuggire e a ridare così a sé e alla figlia la libertà. È molto importante cogliere il punto di vista, le percezioni e le emozioni di chi vive una situazione e senza narrarne la storia tutto questo ovviamente non è possibile.
Nel terzo romanzo menzionato predomina l’umorismo che scaturisce dal confronto-scontro fra la gioiosa tendenza all’improvvisazione degli italiani e il rigore talvolta un po’ cupo dei tedeschi. Penso che anche il cinema rivesta un ruolo importante nel rendere «carne e sangue» le trasformazioni in atto. Parlo anche del libro trasposto nel film Lost in Translation dove per la protagonista si alternano, alla domanda «sposarsi, sì o no?», la risposta polacca, di ripulsa, e quella americana, di accettazione.
In questa metamorfosi che stiamo vivendo, le nostre ambivalenze si accresceranno, ma alla fine speriamo prevalgano risposte che rendano migliori le nostre vite comuni.