Il debutto di Renzi a palazzo Chigi con le slide fu scoppiettante. Sentirlo otto mesi dopo a Porta a Porta parlare di ipotesi di legge elettorale o dei prossimi interventi per l’edilizia scolastica dà la sensazione che il velocista sia rimasto fermo. Sono i rischi del pokerista nell’«epoca del presentismo», come spiega Massimiliano Panarari, docente di Analisi del linguaggio politico e autore di L’egemonia sottoculturale. L’Italia da Gramsci al gossip.

Renzi corre molto, ma la realtà ha acciuffato anche lui?

Viviamo nell’epoca del presentismo, vince chi è in grado di impressionare, di costruire storytelling e di colpire la sfera emozionale nel momento presente. Perché ci si tende a dimenticare rapidamente quello che è stato sostenuto anche poco tempo prima, un fenomeno che vedevamo all’opera nel berlusconismo. Ma le opinioni pubbliche cambiano opinione e stato d’animo molto più volecemente. Qui ci troviamo di fronte alla prima chiamata d’appello. Fino ad oggi la luna di miele fra Renzi e l’opinione pubblica è stata perfetta, ora la promessa si scontra con la realtà.Scricchiola ad esempio l’intesa cordiale con Berlusconi, che continua a rappresentare, quantomeno di sponda, un riferimento indispensabile della politica renziana. Abbiamo anche visto il ritorno di una pratica da prima repubblica come il vertice di maggioranza. Difficile anticipare previsioni, oggi la velocità del mutamento e l’assenza di una direzione chiara da parte delle forze politiche, l’assenza di una narrazione coesa, non dico di un’ideologia, ma di una definizione delle finalità e degli obiettivi sostituita dalla following leadership, il leader che si adegua sondaggio per sondaggio agli umori dell’opinione pubblica, rendono difficile restituire una definizione coerente del quadro. Una delle cifre essenziali della politica di Renzi è l’estrema flessibilità. E’ difficile capire come ciò si possa tradurre in un disegno coerente, e aspettiamo di vedere se le liturgie e i grandi campi di forze che hanno strutturato la politica italiana fino a oggi si dissolveranno o ci saranno resistenze. Sicuramente siamo di fronte a una serie di passi indietro rispetto alla cavalcata trionfale fino alle europee.

Berlusconi rappresentava interessi precisi, e il partito della nazione di Renzi?

La forza del berlusconismo, la sua capacità di dominare per decenni la storia politica e socioculturale italiana, di avere aperto un orizzonte simbolico all’interno del quale ancora ci collochiamo, stava nel fatto che saldava un blocco sociale molto preciso con la capacità di orientare l’immaginario. Renzi rispolvera pratiche che rimandano alla sua formazione, come la politica dei due, tre forni, e cerca di rifarsi all’idea che il paese si governa dal centro, non un centro politico, ma sociale e postmoderno. Il partito della nazione rappresenta una sorta di turbodemocrazia che però non riesce a definire un orizzonte innovativo per questo paese, è una sorta di ritorno ai fondamentali cercando di adattarlo al dissolvimento delle classi sociali per come si sono strutturate nel ’900. Per ora mi sembra un tentativo sperimentale fatto di singoli atti politici che cercano di piacere a parti differenti della società, dagli 80 euro al bonus bebè alle scelte sulle imprese favorevoli all’elettorato berlusconiano. E’ il tentativo, una volta conquistato palazzo Chigi, di costruirsi ex post un blocco sociale e di stare dentro un immaginario già definito dal passato, una scommessa totale che presenta anche enormi rischi per i renziani.

Il partito della nazione vuole essere un «catch all party» nel senso di «partito pigliatutti» o anche «pigliatutto»?

«Pigliatutto», «pigliattutti» e anche partito shakerato. L’elemento prevalente è quello del muoversi, ma accelerare rispetto a cosa? Rispetto alla tendenza prevalente dell’opinione pubblica, per poter rimanere al potere.

Veltroni parlava di «partito degli italiani», che differenze ci sono?

Differenze significative. L’opreazione tentata da Veltroni del socialismo liberale, non riuscita da vari punti di vista, lo poneva, anche per ragioni biografiche, nell’alveo della sinistra. Renzi è davvero un marziano, la sua non è una storia di sinistra. Le due radici sono piuttosto nel «rutellismo». In più in Renzi c’è un tratto caratteriale forte, quello dell’one man show, il leader assoluto che non vuole essere messo in discussione. Nonché l’idea che la disintermediazione consente di tagliare i corpi intermedi e quindi più il leader è decisionista più riesce a instaurare un rapporto diretto con l’elettorato, sorta di magma indistinto che che va impressionato.

Un leader così mediatico non rischia anche di perdere la percezione della relatà?

L’orizzontalizzazione consente di avere rapporti diretti, ma se un tempo si diceva che i politici chiusi nei loro palazzi non sapevano quanto costava un litro di latte, social e Istagram non consentono un bagno di realtà, tendono a virtualizzare. E senza il lavoro di mediazione di partiti e sindacati si rischia di andare in una direzione iperverticistica. Ma l’ascesa di Renzi è indiscutibilmente legata anche alla sua capacità di collocarsi nei media, è un talento naturale.

Fa bene Camusso a inseguirlo su questo terreno, dicendo ad esempio «anche noi facciamo i selfie»?

Una vecchissima regola della politica dice: mai inseguire.

A sinistra di Renzi che spazio c’è?

E’ difficile pensare alla politica in termini diversi dalla saldatura tra un blocco sociale, la rappresentanza autentica, e l’immaginario. E’ il grande tema della sinistra, e la dimensione simbolica ha bisogno di una incarnazione personalistica. E’ comprensibile il rifiuto della personalizzazione, ma finché la sinistra non trova un leader Renzi dormirà sonni tranquilli.