Che lo stato messicano di Veracruz sia «un inferno per i giornalisti» non è una frase a effetto. Dal 2010, da quando è stato eletto il governatore Javier Duarte, ne sono stati ammazzati almeno 15. E ora si teme per la vita di Anabel Flores Salazar, cronista di «nera», sequestrata da un gruppo di uomini armati nella sua casa di Orizaba. La Fiscalia General del Estado (Fge) indaga sugli ultimi contatti avuti dalla giornalista. Intanto, le associazioni in difesa della libertà di stampa tornano ad accusare il governatore di aver profferito minacce velate contro i giornalisti, invitati a «comportarsi bene».

L’anno scorso, ha suscitato grande emozione l’assassinio del fotoreporter Ruben Espinosa e di altre quattro persone, torturate e uccise in un appartamento di Colonia Narvarte, a Città del Messico. Espinosa era di Veracruz, ma aveva deciso di andarse per sfuggire alle continue minacce, ricevute per aver scelto di documentare la repressione. A settembre del 2013, venne aggredito dalla polizia, che gli sequestrò l’apparecchiatura con cui aveva filmato un violento sgombero di maestri in Plaza Lerdo. Insieme ad altri reporter, Espinosa aveva sporto denuncia. Dagli uomini del governatore Duarte, arrivò però un’offerta di denaro in cambio del ritiro della denuncia, che il reporter rifiutò, rinnovando anzi il suo impegno, ma alla fine decidendo di allontanarsi dallo stato.

Dal 2000, sono stati ammazzati 107 giornalisti; 20 sono scomparsi dal 2005; dal 2006, sono stati denunciati 47 attentati contro i mezzi di comunicazione. Un quadro favorito dall’impunità poiché, secondo la Comision Nacional de Derechos Humanos (Cindh), l’89% degli attacchi ai media e a chi vi lavora non viene perseguito. E così, dal 2011, le aggressioni contro i giornalisti sono aumentate, passando da una media di denunce del 41,6% del 2005 all’88,5% degli ultimi anni. Il maggior numero di omicidi e aggressioni si concentra negli stati di Tamaulipas, Guerrero, Chihuahua, Veracruz e Oaxaca.

Secondo dati ufficiali del governo, dal 2006 a oggi si contano 27.000 scomparsi. Cifre che potrebbero essere molto più alte. Secondo Amnesty International, si dovrebbero aggiungere almeno altre 12.000 casi di desaparecidos dall’elezione del presidente Enrique Peña Nieto, nel dicembre 2012. Cifre che mostrano il fallimento delle politiche economiche neoliberiste sostenute da quelle per la sicurezza, imposte dagli Usa e rinnovate ora nel quadro dell’Accordo Transpacifico (Tpp), di cui il Messico è perno. Il pretesto della lotta al narcotraffico serve alla militarizzazione del territorio e alla repressione dell’opposizione sociale. E il numero degli scomparsi pare più elevato nelle zone più ricche di risorse, dove l’intreccio fra mafia e politica è più potente.

Secondo un rapporto Onu, il 30% degli scomparsi tra il 2006 e il 2014 è costituito da minori, oltre 6.000 sono bambine e adolescenti da zero a 17 anni: 7 ogni 10 scomparsi sono donne. Veracruz tiene alta la media dei minori desaparecidos. L’11 gennaio sono scomparsi 5 ragazzi, una delle quali di 16 anni. L’ultima volta che sono stati visti si trovavano vicino a una pompa di benzina. Una telecamera li ha filmati mentre venivano portati via dalla polizia. Lunedì sono stati ritrovati e identificati i loro resti.

Mancano invece ancora all’appello gli studenti normalistas scomparsi nello stato del Guerrero a seguito di un’azione congiunta di narcotrafficanti e polizia municipale. Già durante i primi mesi della loro ricerca, nonostante i depistaggi e le ricostruzioni di comodo, il mondo ha avuto sotto gli occhi la terribile realtà delle scomparse e delle fosse comuni, ma – anche se la mobilitazione per conoscere il destino dei 43 studenti continua – un sistema di potere consolidato sembra aver richiuso le sabbie mobili dell’impunità. La controinchiesta compiuta dalle organizzazioni Onu per i diritti umani ha evidenziato la catena di complicità e le menzogne ufficiali: ma ha dovuto fermarsi alle porte delle caserme militari, dove la pratica della tortura è sistematica.