Ieri mattina, a Regina Coeli, sono cominciati gli interrogatori. Nessuno dei 14 indagati sentiti dai magistrati, tranne l’ex ad dell’Ama Franco Panzironi, ha aperto bocca. Lo stesso Panzironi non è andato oltre il ribadire la propria innocenza. Ma la vicenda è appena all’inizio. Filtrano voci su una nuova e imminente ondata di iscrizioni nel registro degli indagati, e questa volta toccherebbe alla Regione Lazio.
La magistratura, intanto, ha disposto il sequestro dei beni di alcuni indagati: robetta da 204 milioni. Macchine, terreni, appartamenti, negozi, quote societarie: di tutto si può dubitare tranne che del rapido arricchimento dei presunti aderenti all’organizzazione ribattezzata dagli inquirenti «Mafia Capitale». Una parte di quei capitali, 40mila euro, sarebbe finita anche alla Fondazione Nuova Italia dell’ex sindaco di Roma Gianni Alemanno, che si è autosospeso da tutte le cariche in Fratelli d’Italia e al Tg1 ha dichiarato: «Sicuramente ho sbagliato a sottovalutare la componente umana, non ho dato la giusta attenzione alla scelta della squadra, mi assumo la responsabilità politica». Ma è solo una delle onde che si avviano a sommergere la politica romana, e neppure la più grossa. Nell’epicentro del terremoto c’è il Pd.
Il M5S chiede lo scioglimento del Comune, la presidente della Camera Laura Boldrini esprime«sdegno totale». L’esponente del Pd della capitale Roberto Morassut vuole «l’azzeramento del Pd romano». Il sindaco Ignazio Marino promette che «con i cittadini onesti Roma cambierà davvero». Ma non sono gli strepiti, questi e molti altri, a restituire il senso di quanto profonda sia la scossa. Sono i fatti in sé, senza bisogno di commenti.
L’elemento da alcuni punti di vista più inquietante dell’intera vicenda è la facilità con cui Massimo Carminati è passato dal controllo quasi totale sugli appalti e sulle nomine nel corso dell’era Alemanno alla conferma di un potere quasi identico con i successori.
Stando a quanto la magistratura ha deciso di rendere pubblico, proprio del potere personale di Carminati si tratta. Più che di «Mafia Capitale» si dovrebbe infatti parlare di «Carminati Capitano». Nella ricostruzione degli inquirenti, l’ex «Nero» della Magliana non è solo «la figura apicale», ma il perno intorno a cui ruota ogni cosa, tutt’al più in tandem con Salvatore Buzzi, l’ex detenuto comune (omicidio colposo ai danni della consorte) che aveva creato un impero nelle cooperative sociali, a partire da quella cooperativa «29 giugno» fortemente sponsorizzata e poi protetta dall’ex assessore regionale al Bilancio Angiolo Marroni, Pd (non coinvolto, va sottolineato, nell’inchiesta in corso). L’elemento coercitivo in base al quale la procura di Roma contesta l’associazione mafiosa ex 416bis è costituito, a conti fatti, solo dalla presenza di Carminati, sufficiente, scrivono gli inquirenti, a incutere terrore. In realtà di episodi di violenza, per quanto riguarda il «mondo di sopra», non ne risultano quasi, e anche le minacce sono limitate. A renderle temibili è solo il fatto che provengano da tanto criminale.
Almeno stando a quel che se ne sa al momento, l’aspetto dell’associazione mafiosa è davvero fragile, basato appunto all’80% e oltre sulla partecipazione, anzi sulla direzione, di Carminati. Con tutta la fiducia possibile nei togati, è un po’ poco. Soprattutto, la deflagrante accusa di aver costituito una Cosa Nostra romanesca rischia di non mettere nel dovuto risalto quel che l’inchiesta e le intercettazioni raccontano del livello, che dire basso è ancora niente, raggiunto dalla politica a Roma, come probabilmente in molte altre importanti realtà locali. Non a caso una quantità di vicende affrontate dagli inquirenti è citata nelle carte per dare un’idea della situazione, ma senza che sia stato raccolto il materiale probatorio necessario per procedere.
A leggere le carte dell’inchiesta non sembra tanto di trovarsi di fronte al Padrino quanto a una versione all’amatriciana, ma non meno ignobile, di House of Cards. Pressioni, manovre, anche minacce, corruzione, condizionamenti di ogni tipo per piazzare le persone ingiuste al posto giusto. In realtà, più che ai suoi trascorsi criminali con la Magliana, sembra che Carminati debba il potere e l’influenza di cui gode a quelli di neofascista noto e stimato in quell’ambiente. Dicono ad esempio che proprio Carminati abbia offerto la propria alta garanzia a sostegno di Riccardo Mancini, l’ex ad di Eur spa, inviso ai suoi ex camerati arrivati al potere a Roma per alcune delazioni e accuse ai tempi degli spari. E ancora Carminati avrebbe speso il suo persuasivo carisma per convincere l’ex capo della segreteria di Alemanno, Lucarelli, a confermare il ruolo della cooperativa di Buzzi «29 giugno», inizialmente destinata a essere affondata in quanto eredità della passata amministrazione di centrosinistra.
Ma qualunque fosse il fondamento del potere di Carminati è un fatto che, dopo aver trasformato gli appalti romani (e non solo) in una fonte inesauribile di arricchimento con la giunta Alemanno, il gruppo abbia proseguito col vento in poppa anche con l’amministrazione di centrosinistra. Lo ha fatto, se le accuse saranno confermate, molto più comprando che minacciando. In diverse intercettazioni Buzzi parla senza mezzi termini di Mirko Coratti, presidente dell’assemblea capitolina, come di un dipendente a libro paga.
Sarà la magistratura a stabilire quanto il malaffare sia permeato all’interno del Campidoglio che però, oggi, appare come una fogna a cielo aperto.