Un magnifico libro che ci riporta all’epoca della dittatura cilena, si legge tutto d’un fiato con ansia e dolore, con partecipazione e potremmo dire militanza è “Dawson Isla 10” di Sergio Bitar, Ministro delle Miniere del governo Allende, ora tradotto dopo varie versionI, anche in italiano, edito da Sandro Teti. Non a caso Miguel Littin un maestro del cinema cileno ne trasse nel 2009 un film che porta lo stesso titolo, dopo un lungo lavoro di interviste a tutti i detenuti superstiti del campo di concentramento, di ricostruzione, scelta di alcuni tra i numerosissimi episodi raccontati, qualche invenzione. Un tradimento più vero della realtà, «il film è infedele, ma alla fine è fedele» commentava Bitar. Faceva parte anche questo film del faticoso recupero della memoria che sembra non avere mai fine nei paesi latinoamericani colpiti dalle dittature. Il Cile in particolare con la sua economia rampante, le scelte democratiche che spesso ci superano, con la campagna vincente per il No! («Chile, la alegria ya viene») a Pinochet sottoposto a referendum, con i film di Pablo Larrain che strappano l’anima ha dimostrato una reazione degna del primo governo socialista eletto che fu quello di Allende, un modello per tutti.
Ci stupisce quindi che leggere il libro oggi faccia ancora questo effetto dirompente: probabilmente perché per chi ha il ricordo dei padri nei campi di concentramento della seconda guerra mondiale senza che ne facessero mai parola tranne che per alcuni cenni paradossali e comici, si spalanca una porta sulle qualità del genere umano. Così erano anche questi docenti universitari, deputati, ministri del governo Allende, tutti convocati al Ministero della Difesa il giorno dopo il bombardamento alla Moneda con l’ordine di presentarsi. E loro si presentarono e, senza sapere nulla del loro destino, furono immediatamente deportati all’estremo sud del paese, nella Terra del Fuoco che come si sa è una zona che potrebbe corrispondere alla Siberia, nell’isola Dawson, ma all’interno senza neanche poter vedere il mare.
Ci viene in mente in particolare un film ambientato in epoca staliniana (Makavejev?) dove il protagonista non aspetta neanche di capire bene cosa stia succedendo, ma alle prime marce militari udite per radio capisce il vento che tira, ha la valigia già pronta e fugge dal paese. Anche a Santiago «la notizia» quell’11 settembre 1973 la sentirono per radio: «Alle 2 del pomeriggio, quando le Forze armate sono entrate nel Palazzo del Governo, è stato trovato il corpo senza vita del signor Allende». Invece il numeroso gruppo di alti funzionari del governo legittimo non accettò né l’esilio, né l’asilo politico che era stato offerto, ma, scrive Bitar, «dal momento che non c’era nulla di cui mi dovessi pentire, non avevo nulla da temere. La prima reazione di chiunque senta di aver agito con trasparenza e onestà, servendo valori giusti è quella di affrontare le proprie responsabilità, considerando che i princìpi ispiratori della propria vita e di quella di chi lo ha affiancato sono valori condivisi da tutti».
Inizia così fino alla fine del ’74 quando fu costretto all’esilio un durissimo periodo di detenzione in tre diversi campi, raccontato senza mai eccedere nei toni, come una cronaca, un’indagine sull’essere umano, sulla solidarietà, sull’incomprensbile corso degli eventi compreso il comportamento dei militari. Lampanti sono le responsabilità della Cia sia nel golpe che nel meccanismo repressivo, mentre alla consumata tecnica nazista dei campi di concentramento spetta la logistica: per realizzare i campi fu chiamato un tedesco esperto. Che ci fosse un’unica fonte di ispirazione in quel sistema, un’unico campo di addestramento, lo avevamo già potuto vedere alla fine degli anni ’70 nel cinema greco, in Happy Day di Pantelis Voulgaris dove si raccontava dei prigionieri dei colonnelli in un’isola sperduta dell’Egeo, gli interrogatori, le violenze fisiche e psicologiche…A parte il gelo antartico, le simulazioni di fucilazione senza proiettili, il tentativo di far pwerdere l’identità (Isla 10 indica il numero di riconoscimento di Bitar) si mette in evidenza l’organizzazione e la solidarietà tra prigionieri, il diverso comportamento degli ufficiali. Si torna spesso sull’assoluto divieto di possedere carta e libri, una mancanza che per degli studiosi risulta assai più drammatica delle fatiche fisiche. All’inizio il divieto è causato dalla paura di materiale sovversivo, in particolare – chissà perché – per qualunque titolo che portasse la dicitura «Opere complete», per non parlare del sequestro di un volume sul cubismo, sospettosi si parlasse di Cuba. Interessante per comprendere il recupero della memoria è stato il lungo processo di scrittura, iniziato già nel 1975 quando si trovava in esilio ad Harwad, dove, come illustre economista, era stato accolto come insegnante della prestigiosa università. Solo nel 1984, quando fu autorizzato il suo ritorno in Cile riprese in mano le trecento pagine come se le avesse scritte qualcun altro e i ricordi per la prima volta irruppero. «È incredibile come la nostra mente oscuri quei ricordi che le tolgono la serenità, danneggiandola irreparabilmente…».
L’INCONTRO
Sergio Bitar che è stato ministro dell’istruzione con Lagos e dal 2008 è stato ministro delle opere pubbliche, attualmente è presidente della Fondazione del Partito per la democrazia che appoggia il governo e si occupa della formazione dei giovani politici. È a Roma a presentare il libro nella sede dell’Enciclopedia Treccani, ospite del direttore Massimo Bay, alla presenza di Walter Veltroni che del libro ha scritto la prefazione, come uno dei «ragazzi» che ha vissuto quell’11 settembre di manifestazioni tra Vietnam, Cile e Grecia, mentre anche l’Italia si trovava in bilico. C’è anche Valentino Parlato che Sergio Bitar vuole incontrare come storico fondatore del «manifesto» per conoscere più in dettaglio il rapporto che ebbe con il partito comunista («la nostra forza, la ragione per la vittoria elettorale, dice, è stata l’unione di tutti i gruppi della sinistra».
Invece di andare indietro nel tempo e chiedere se il processo della memoria in Cile si ritiene concluso – ma sappiamo che non è affatto così se ancora continuano a uscire film su quel 1973 – vediamo di sapere qualcosa in diretta sulla situazione attuale:
«Oggi la presidenta Bachelet ha cambiato il paese: dal 2014 con una decisa svolta ha cambiato il sistema dell’istruzione gratuita per tutti, senza fine di lucro, quindi aperta a tutte le classi sociali, poi la riforma tributaria e il sistema elettorale. È stato quindi un anno di grandi riforme. Ci sono stati anche gli accordi della vita in coppia, il riconoscimento delle unioni omosessuali, nel senso di accordi patrimoniali, anche se non matrimoniali. Quest’anno c’è stata una grande crisi economica nella politica, un grande gruppo economico ha finanziato la destra mentre il figlio della presidenta Bachelet è stato coinvolto in un grande scandalo di speculazione edilizia. In due mesi la sua popolarità è precipitata. Adesso la destra politica è distrutta, ma Bachelet è calata nei sondaggi in un anno dal 55% al 30%».
Una delle cose che ti dicono sempre in Cile è che bisogna assolutamente vedere il sud, i luoghi meravigliosi di quelle terre. È forse per rivalutare le zone della detenzione politica? «Isla Dawson era molto più a sud: c’è il sud e (disegna la cartina) a mille chilometri più a sud c’è la zona Australe, vicino all’Antartide. Lì eravamo noi
Questa isola inoltre ha una storia. Era un latifondo e quando Allende fece la riforma agraria assegnò l’isola alla Marina».
Quale pensa sia il futuro del Latino america? «Il Latinoamerica ha fatto negli ultimi dieci anni un grande gragrandi pasi in avanti in fatto di democrazia e crescita economica, nella sfera dell’energia sostenibile, nella vendita del rame (la Cina in questo è la maggior acquirente). Ma oggi ha un nuovo problema, la corruzione che emerge in molti paesi, la debolezza delle istituzioni, le disuglianze sociali». In particolare per quanto riguarda il Cile quello del superamento delle differenze sociali faceva parte del programma Bachelet: «La crescita economica aumenta la disuguaglianza. In questo settore stiamo facendo riforme».
E infine torniamo al lavoro sulla memoria, che così faticosamente emerge dallo stato di amnesia che ha toccato il Cile come l’Argentina: «Un problema della società moderna è mantenere la memoria, ma come passare dalla memoria personale alla memoria sociale? La prima cosa è la cultura dei diritti umani, la democrazia deve essere curata come un giardino. La memoria è futuro». Gli ricordiamo che ora a Cannes è in programma il documentario sulla vita personale di Allende, realizzato dalla sua nipote Marcia Tambutti, tra i numerosi altri documentari che vogliono ricordare la sua vita politica: «Amche Miguel Littin ha un nuovo film dal titolo Allende en su laberinto, è uscito ad aprile». Racconta le ultime sette ore del presidente nella Moneda, con i suoi collaboratori (stralciamo qui accanto una parte del libro di Bitar dedicate proprio a questo) con il dramma della decisione da prendere se arrendersi o combattere fino alla morte, mentre attorno a lui vede cadere i suoi più cari amici. Ha tutto il tempo per evidenziare le responsabilità statunitensi nel golpe. La giustizia cilena ha definitivamente stabilito che Allende non fu assassinato ma Littin si astiene dal presentare con certezza il suicidio, lasciando allo spettatore trarre le sue conclusioni («la voce del suicidio crebbe e crebbe, ci disse Littin nel 2009 quando presentò il suo Dawson Isla 10, ma non ci sono le prove, me lo dimostrino. È compito dei poeti, dei cineasti offrire elementi per trovare la verità. Il cinema riscrive la storia»
In Dawson Isla 10 Miguel Littin negava il suicidio di Allende, Pablo Larrain in Post Mortem ha messo in scena l’autopsia del corpo di cui erano spariti i referti del coroner: «Il suicidio di Allende, dice Bitar, è stato un atto di coraggio. Come si dice in Cile: se suicidó pórque lo mataron». Il lavoro della memoria quindi non è concluso: «La giustizia ha condannato di recente, 40 anni dopo, un gruppo di militari accusati di aver provocato le sparizioni. È la destra che vuole distruggere la memoria, c’è una lotta politica per la memoria: quelli che vogliono mantenere lo status quo non vogliono la memoria, ma la paura. La lotta politica è contro la paura e contro l’oblio».

 

IL FILM

>Miguel Littin, il regista cileno di origine greco palestinese, autore dei celebrati El chacal de Nahualtoro (’69), Acta de Marusia (’75), che rientrò clandestinamente nel paese nel 1985 e relaizzò Acta general de Chile causando la commozione generale di tutti gli esiliati cileni sparsi per il mondo, dal libro di Sergio Bitar realizzò nel 2009 Dawson Isla 10 straripante di emozioni e immagini forti, dove si raccontava, mentre ferveva la propaganda del perdono generale, un episodio poco conosciuto della storia del golpe, la deportazione dei ministri ed alti funzionari vicini al governo Allende sottoposti alla convenzione di Ginevra riveduta e corretta secondo le regole imposte dal direttore dell’isola «che ulula e che divora», dove risuonano le parole di Neruda («ti obbligheremo mare a fare miracoli perché in noi stessi è il miracolo»), la voce del presidente captate da una radio a galena («le mie parole siano un castigo morale per coloro che hanno tradito il giuramento») e perfino la scena non del suo suicidio ma assassinio, così come è stato captato dal subconscio (e il subconscio è più forte della realtà, diceva Littin). Del libro ci sono l’impossibile qualità della vita, l’uso allusivo degli inni e delle canzoni popolari, delle matite con cui riprendere la quotidianità, fino ai seminari di lingue tenute dai prigionieri, in particolare per studiare il tedesco, frecciata diretta ai militari (che non la capiscono) per l’allusione ai campi nazisti.