Raffaello Matarazzo non è mai stato amato dalla critica italiana, con poche eccezioni, note ai «nostri lettori»: troppo cattolico e troppo autenticamente popolare per la critica di sinistra, e troppo erotico e trasgressivo, del genere «godiamoci il peccato ma poi puniamolo come si deve», per quella cattolica. Il Torino Film Festival ha compiuto quindi una doppia operazione: la proposta di due documentari che il nostro girò nel 1933 per la Cines Pittaluga e una copia a colori (definirla «restaurata» grida vendetta, quindi diciamo che è a colori, mentre a lungo ha circolato il b/n predisposto per le seconde visioni) de La nave delle donne maledette.

I due doc, Littoria e Mussolinia in Sardegna raccontano la bonifica delle paludi pontine e quelle dell’oristanese, con la costruzione di nuove città fasciste, in un’armonia terra, campagna, lavoro e macchina che precede il documentario newdealista di Pare Lorentz e ben rappresenta quell’eccezionale scuola documentaristica italiana formatasi al di fuori del Luce, che si ispirava alla lezione sovietica (montaggio formale, inquadrature dal basso). Nella conversazione che ha fatto seguito alla presentazione di questi film Emanuela Martini, Emiliano Morreale, Sergio Toffetti e Domenico Moneti hanno discusso della fortuna critica di Matarazzo, osservando come negli anni trenta egli fosse impegnato nella produzione degli apprezzati gialli-rosa del periodo, ma come in Birichino di papà la protagonista canti una canzone che scardina l’ordine rigoroso del saggio ginnico delle colleghe per esaltare un’idea di libertà, in chiave antiregime.

L’attenzione comunque va alla Nave delle donne maledette, un delirante film in costume, che culmina in un’orgia selvaggia, inesorabilmente punita con una tempesta che affonda la nave con tutto il suo carico peccaminoso. In questo feuilleton ambientato in un paese ispanizzante, una bella ragazza aristocratica è destinata dal padre in rovina a sposare il ricco nobiluomo, che può risollevare le magre finanze del casato, ma giunge un poliziotto con un mandato d’arresto «per una donna che ha gettato un neonato nel pozzo di un convento» e la ragazza sviene. Il disastro sarebbe totale per cui il genitore e la perfida peccatrice coinvolgono Consuelo, la cugina povera e innocente (May Britt coi suoi occhioni azzurri) che quindi viene condannata ai lavori forzati nelle colonie, nonostante il suo avvocato difensore, innamoratosi di lei, cerchi invano di salvarla. Il caso vuole che sulla nave in cui viaggiano i nobili sposi, viaggino anche le «donne maledette» della colonia penale, le quali, stanche dei soprusi che la povera Consuelo e loro stesse devono subire, si ribellano, convincendo i marinai a unirsi a loro, promettendosi con l’esibizione delle loro forme, per nulla emaciate.

Naturalmente la ciurma aderisce all’invito e si solleva contro gli ufficiali, ma senza guida ogni ribellione è destinata a fallire, racconta Matarazzo; ebbri di alcol e sesso, senza ascoltare i saggi consigli del cuoco di bordo, un prete spretato genialmente interpretato da Edoardo Cianelli, al rientro in Italia dopo una lunga carriera a Hollywood, marinai e donne si scatenano in un’orgia molto coreografica. Seni al vento, schiene bianchissime frustate con sadismo libidinoso, schiavi neri che ballano al ritmo ossessivo dei tamburi, il canto Malasierra (interpretato da Flo Sandons): tropici napoletani, con la memoria delle radici ispaniche.

D’altro canto Matarazzo non era nuovo a queste ibridazioni musicali, del resto insite nel concetto stesso di melò, ma che nel suo caso richiamano piuttosto il modulo cui appartengono culturalmente – la sceneggiata. Infatti Catene, il suo film più famoso e commercialmente di enorme successo, era una versione melo di Lacrime Napulitane.