Seydou Keita, a cui il Grand Palais di Parigi dedica un’imponente retrospettiva fino all’11 luglio, è uno dei maggiori artefici del rinnovamento culturale del Mali per il quale ha lavorato fin dagli anni quaranta prima dell’indipendenza del paese dalla Francia. Nella capitale Bamako il suo studio era al crocevia tra la stazione ferroviaria che collega la città a Dakar, il Marché rose, importante centro di scambi commerciali per tutto l’Ovest africano, la prigione, il Sudan Ciné, la sala cinematografica che richiamava spettatori dai villaggi vicini.

“Le donne di Bamako sono belle”, sostiene una canzone popolare. Che a creare la leggenda non siano estranee le foto di Keita? Ogni ritratto mette in rapporto la personalità della donna con l’avvento della modernità, la nuova mitologia che sta nascendo e i cambiamenti psicologici che l’accompagnano. Le sue donne, ritratte sempre nello studio sullo sfondo di stoffe africane, vengono colte nei particolari, dal naso diritto ai grandi occhi, alle bocche sottolineate dal trucco. Esaltandole, le trasforma nelle nuove protagoniste della vita della capitale, mentre imprime a ciascuna una sua particolare bellezza, accentuata dai gioielli, dalle acconciature, dalle scarpe dai tacchi alti, dalle borsette europee. Davanti al suo obiettivo sfila l’epoca della fine del colonialismo, un’Africa dove la giovinezza in fermento guarda con fiducia e entusiasmo al futuro. Il piccolo atelier di venti metri quadrati ricavato nel 1948 in una stanza della casa di famiglia a Bamako-Koura, con l’adiacente cortile dove il geniale artista preferisce fotografare alla luce del giorno, è la sua caverna di Alì Babà gremita di orologi, biciclette, cappelli, collane preziose, abiti occidentali. Ognuno vi realizza il proprio sogno a bordo di una Vespa o, camicia aperta sul petto e Borsalino in testa, atteggiandosi come le star di allora.

Le donne sono le protagoniste privilegiate di questa affascinante galleria di volti sorridenti, imbronciati, pensosi che guardano spavaldamente in macchina. Come le due ragazze sedute su un finto prato davanti a una tela dal disegno arabescato. Una con una veste di tessuto nero a intarsi bianchi, l’altra con una abito a fiori, accovacciate sulle ginocchia. Altre due, vicine come una coppia di gemelle, emergono dal paesaggio artificiale con i copricapi che scendono in grandi foglie, rivelando gli ornamenti dorati nei capelli. Il prato mima un paesaggio naturale che viene smentito dalla stoffa dello sfondo ma rimanda allo stretto legame che gli africani hanno con la natura come i costumi tradizionali che indossano le donne. A volte la mise en scène è arricchita da fiori, sedie, penne, radio. L’Africa francesizzata che ostenta i segni degli interni borghesi sembra venir contraddetta dalla presenza della natura. Le foto di Keita tentano la sintesi tra cultura africana e presenza europea, ma danno la sensazione della solenne immobilità. Come se le persone ritratte a tutto tondo fossero delle antiche sculture, modelli idealizzati più che persone vere. Se nei ritratti femminili gli abiti tradizionali segnano un continuum con il passato, e le donne sembrano aderire al terreno, vi affondano le radici perpetuando l’antico, testimoni di un paese precedente alla colonizzazione, nei ritratti maschili è più evidente la contaminazione con i modelli europei. Gli uomini indossano giacca e cravatta, si atteggiano a machi, ai duri che ammirano nei film visti al Sudan Ciné. A loro è affidato il rito di passaggio. Imbevuti di cultura francese, si danno l’aria di dandy. Come l’uomo dal completo bianco con gli occhiali. Se assomiglia a un perfetto bamakese della nuova classe emergente, non lo è per il garofano che tiene in mano. Il fiore accentua la sua componente femminile, richiamando l’attenzione sul suo viso ascetico e sulle sue dita sottili che alludono ai poeti romantici studiati a scuola. Le sue immagini rimandano sempre a un passato che anche se non è il suo personale, ma piuttosto quello collettivo di un paese, è pur sempre l’infanzia di una nazione.

Seydou Keita era nato nel 1921 a Bamako, capitale del Sudan francese. E’ il maggiore di cinque figli e fin da ragazzo lavora nella falegnameria del padre. Quando lo zio di ritorno da un viaggio nel Senegal gli regala la prima macchina fotografica, una nuovissima Kodak Brownie, si appassiona subito al nuovo mezzo: “Avevo quattordici anni, erano le mie prime foto, è stato il momento più importante della mia vita. Solo più tardi l’ho scelto come mestiere da fare meglio possibile. Ho amato moltissimo la fotografia”. I primi ritratti sono quelli della sua famiglia, degli amici e delle persone del quartiere. Approfondisce lo studio alla scuola di Pierre Garnier, un fotografo che ha un negozio di accessori fotografici e dal suo mentore Mountaga Troré. Dal suo atelier passavano tutti, i funzionari, i commercianti, i politici. Ma erano soprattutto i giovani ad amare i suoi ritratti per l’incisività e la precisione. Si vedeva addirittura, dicevano, un pelo che sta crescendo. E’ diventato famoso quando le sue foto hanno cominciato ad avere un valore di scambio, di dono, di offerta all’amata, ai parenti, agli amici lontani. Ammirate dai passanti e dalle persone ritratte, hanno finito con l’essere acquistate per la loro rappresentatività come un quadro o una scultura. Nel corso degli anni Seydou Keita ha realizzato migliaia di ritratti fino a diventare fotografo ufficiale della Repubblica del Mali. E’ morto a Parigi il 21 novembre 2001.