Come le carovane d’altri tempi e d’altri luoghi, i partecipanti al Noir in Festival sono partiti da Como per arrivare a Milano, dove la Iulm, l’Anteo e la Cineteca sono stai i luoghi deputati per ospitare gli ultimi giorni di manifestazione. Che, in ambito cinematografico ha presentato un lavoro decisamente intrigante: Wulu dell’esordiente franco-maliano Daouda Coulibaly).

In lingua bambara Wulu sta per cane, che è anche in senso figurato la collocazione nel mondo di un individuo. Ladji, il protagonista, la sta ancora cercando. Da cinque anni è «il bigliettaio» del pullmino che trasporta varia umanità da un posto all’altro. Non è che guadagni molto, infatti condivide un tugurio con la sorella Ami che si prostituisce miseramente per campare. Ladji però sta aspettando la promozione: autista. Ma arriva un generico nipote del titolare che gli soffia il posto tanto agognato. E allora tocca fare di necessità virtù, seppur poco virtuosa. Lui ormai conosce il mondo dei trasporti quindi si offre a un conoscente trafficante di droga. Si tratta di andare con un furgoncino da Bamako, capitale del Mali, a Conakry, in Guinea, trasportando carne e fumo, per poi tornare con pesce e coca. Ladji è al primo viaggio ma non vuole passare per sprovveduto, praticamente potrebbe essere venduto all’antidroga. Quindi riesce a portare a buon fine l’incarico e a mettersi in evidenza sia con i capetti che con il vero capo, naturalmente europeo. E un po’ alla volta il suo essere efficiente e taciturno, lo portano a lavorare tanto e a guadagnare tanto. A lui non importa molto, ma la sorella è tremendamente ambiziosa e stupida.

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Così tra viaggi sino a Timbuktu, contatti con AlQaeda legati al narcotraffico, così come con i vertici militari locali, Ladji è ormai un tipino che può puntare al grande colpo. Anche perché le turbolenze politiche stanno per rendere impossibile continuare «il lavoro».
Ambientato cronologicamente prima del colpo di stato e della guerra che ha visto in campo non solo i francesi ma una buona fetta di occidentali impegnati a combattere i ribelli del Nord, tuareg e islamisti, il racconto di Coulibaly nei suoi tratti talvolta ingenui disvela un mondo intuibile ma davvero interessante. «Hollywood Reporter», dopo la presentazione di Toronto, si è sbilanciato parlando di un nuovo Scarface africano. Forse è troppo, ma certamente il regista saprà farsi notare ancora e con lui il protagonista Ibrahim Koma con la sorella, Inna Modja, già conosciuta come cantante.

C’è molto più mestiere e consapevolezza invece nel nuovo film dell’islandese Baltasar Kormakur The Oath. Del resto dopo gli esordi in patria con 101 Reykjavik che ha spopolato ai festival una quindicina d’anni fa, ha potuto esprimersi anche a Hollywood dove tra gli altri ha firmato Cani sciolti e Everest. Ora è tornato a casa con una storia classica. Finnur è un medico, anzi un ottimo cardiochirurgo, fanatico dell’esercizio fisico, con una casetta da design, una moglie carina e una figlioletta adorabile. Solo che aveva avuto in precedenza un’altra figlia, ora da poco maggiorenne, da un po’ tossica e molto indulgente nei confronti del suo ragazzo davvero poco raccomandabile. E la ragazza deraglia in una notte piuttosto confusa. Finnur non sa bene come gestire la situazione per recuperare figlie e affetto e le sbaglia tutte.

Kormakur questa volta si è anche ritagliato il ruolo da protagonista e la sua interpretazione è piuttosto efficace. Molto meno la sceneggiatura che fa entrare in corto circuito il mondo perbenista del professionista con il sottobosco degli spacciatori attraverso una serie di escamotage narrativi piuttosto forzati, che così disinnescano il thriller potenziale. Restano scenari e interni da profondo Nord che ai nostri occhi suonano esotici come la scritta Timbuktu lungo i cippi delle statali del Mali.

Questa sera chiusura con Collateral Beauty di David Frankel, protagonista Will Smith coadiuvato da un cast stellare composto da Keira Knightley, Kate Winslet, Edward Norton, Helen Mirren, Michael Peña.