Tre giorni fa Torino ha dato l’ultimo saluto a Luciano Gallino. C’era, con i suoi allievi, il pezzo di città che lo ha apprezzato, stimato, riconosciuto come maestro e amico.

E c’erano – come spesso accade nelle cerimonie funebri, i responsabili dell’establishment politico e della carta stampata della città (che è, come noto, uno dei poteri forti torinesi). Alcuni – non certo questi ultimi – ne hanno ricordato l’impegno politico di questi ultimi anni.

A me piace ricordare che la penultima uscita pubblica di Gallino è stata, il 30 agosto, l’inaugurazione della festa di una caserma occupata, la caserma di via Asti, con un intervento sulle prospettive dell’Italia e dell’Europa «dopo la Grecia». Ebbene l’altro ieri, due giorni dopo il suo funerale, quella caserma – nella quale ci aveva anticipato di voler tornare – è stata sgombrata su richiesta della proprietà, la Cassa depositi e prestiti (prossima ad accollarsi, secondo i desiderata del presidente del Consiglio, 400 milioni di passività di Expo), di concerto con il sindaco di Torino. Una coincidenza, ovviamente. Ma una coincidenza che conta e che è istruttivo raccontare.

La caserma La Marmora di via Asti è uno dei punti di riferimento della Resistenza torinese, già sede del comando della Repubblica di Salò e luogo di tortura di antifascisti e partigiani, molti dei quali vi furono fucilati. Negli anni quel luogo è stato abbandonato, con conseguente degradato, per essere poi venduto dal Demanio alla Cassa depositi e prestiti, con la «mediazione» (e apposita variante del piano regolatore) del Comune di Torino, a prezzo stracciato e con elevati rischi di usi speculativi. Per questo, alla vigilia dello scorso 25 aprile, un gruppo di ragazzi di una associazione torinese lo ha occupato «per liberarlo e restituirlo alla città». Subito si è costituito, per la sua gestione, un comitato composto da associazioni antifasciste e impegnate nel sociale, organizzazioni sindacali, intellettuali, uomini delle chiese, artisti e via elencando.

Il primo maggio ci si è presentati alla città, con un pranzo comunitario, e si è precisato che «l’occupazione della caserma non è fine a se stessa e non è contro nessuno. Al contrario è un gesto concreto per restituire alla città spazi inutilizzati e in via di degrado: per farne luoghi di memoria, di socialità, di cultura. Ma ciò sarebbe insufficiente senza un impegno particolare in favore della parte della città maggiormente colpita dalla crisi: di qui la centralità di attività e interventi sul piano sociale che sono in preparazione e presto diverranno realtà: spazi studi per gli studenti, una mensa popolare e soprattutto la risistemazione di spazi abitativi per gli sfrattati».

Una occupazione anomala e composita, dunque, che è stata accompagnata da un immediato contatto con Cassa depositi e prestiti e Comune di Torino finalizzato a un «riconoscimento» della situazione con la dichiarata intenzione di assumersi tutti gli oneri di gestione. Intanto la caserma è stata abitata da una comunità di giovani, sono state realizzate la mensa gratuita (che ha servito fino a 80 pasti al giorno per sei mesi) e le aule studio, sono iniziati i lavori necessari per rendere la struttura abitabile durante l’inverno a fini abitativi, è stato accolto un gruppo di rifugiati pachistani e si è sviluppata una intensa attività culturale e formativa (con la partecipazione della migliore cultura italiana, di cui Gallino è esempio). Due settimane fa, infine, si sono rifugiate in caserma 25 famiglie di Rom sfrattate dai luoghi di abitazione, organizzate da un collettivo anarchico, con cui è iniziato un proficuo confronto diretto a trovare soluzioni stabili e dignitose, anche con la necessaria pressione nei confronti delle istituzioni locali.

La reazione dell’establishment cittadino non si è fatta attendere ed è iniziata una vera e propria campagna di delegittimazione, che ha visto in primo piano i giornali cittadini e la politica (dalle destre al Partito democratico). Anziché ragionare sulla insufficienza delle risposte della città ai crescenti bisogni sociali e alla necessità di forme innovative di impiego e gestione dei (molti) beni pubblici abbandonati si è gridato alla «illegalità», si è parlato di un’occupazione con l’occhio aperto alle prossime elezioni amministrative, si sono adombrate divisioni profonde tra gli occupanti, si è apertamente richiesto lo sgombero, soprattutto a partire dall’arrivo in caserma delle famiglie Rom.

E, infine, lo sgombero è arrivato. La legalità (invocata in prima fila dagli eredi dei repubblichini) è stata ripristinata, i Rom sono tornati per strada, la mensa è stata chiusa, una esperienza originale e innovativa di rapporto tra sociale e politica si è (momentaneamente) arrestata.
Da oggi, con una manifestazione davanti alla caserma, si comincerà a costruire una risposta forte. Perché è qui – come ci ha insegnato Gallino – che si costruisce un nuovo modo di fare politica e di collegarlo con le persone in carne ed ossa.