Novantatrè anni sono un periodo lungo per una vita che si presuppone piena ed intensa, ma quando una persona o un personaggio ci è vicino, anche solo tramite le sue opere come Shigeru Mizuki, è sempre difficile non venir colti di sorpresa quando l’annuncio della morte viene diffusa dai mezzi di comunicazione. È successo così nella mattinata giapponese di due giorni fa, quando le prime notizie della scomparsa del grande artista giapponese hanno cominciato a trapelare dai vari social network e le immagini dell’anziano ma combattivo giapponese hanno riempito le televisioni dell’arcipelago nipponico. Sebbene già conosciuto ed apprezzato a livello internazionale grazie a quello che è il suo lavoro più popolare, GeGeGe no Kitaro, la serie di manga creati nel 1959 e tramite i quali ha portato sulle pagine e dato una forma riconoscibile agli yokai, i fantasmi-mostri che popolano il folklore nipponico, Mizuki è stato «riscoperto» dal pubblico occidentale generalista, solo negli ultimi anni.

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Oltre ad un riconoscimento per il suo NonNonBa premiato in Francia nel 2007 al Festival International de la Bande Dessinée d’Angoulême, sono cominciate infatti ad essere tradotte anche quelle sue opere che hanno un taglio diverso, realista e sono più «serie» (con tutte le virgolette del caso) e personali, tanto che si potrebbero definire, e viene puntualmente fatto dai puristi, non tanto man-ga ma piuttosto geki-ga, immagini drammatiche. Da circa due anni infatti la casa editrice americana Drawn and Quarterly ha pubblicato in quattro corposi volumi, l’ultimo volume uscito lo scorso settembre, quello che forse è uno dei massimi capolavori di Mizuki, Komikku Showa-shi, una storia a fumetti dell’epoca Showa, in inglese Showa: A History of Japan, originariamente pubblicato fra il 1988 ed il 1999. Più di duemila pagine di non-fiction che si leggono tutte d’un fiato e come sotto ipnosi, una sorta di autobiografia dell’autore, puntellata da elementi fantastici con cui Mizuki ripercorre tutta la sua vita, con particolare attenzione verso gli avvenimenti storici che hanno accompagnato il Giappone, ma anche il resto del mondo, durante il periodo Showa (1926 – 1989).

E la storia personale dello stesso Mizuki è di quelle eccezionali ma allo stesso tempo comuni a tanti uomini della sua generazione. Nato nel 1922 a Osaka e trasferitosi a Sakaiminato nella provincia di Tottori, che gli ha anche dedicato una strada con le statue dei suoi personaggi più popolari, da bambino viene iniziato al folklore e agli yokai da Nononba, una vecchia signora che ritornerà sulle pagine dell’omonimo lavoro. Ma nel 1942 viene arruolato nell’esercito imperiale e spedito in Papua Nuova Guinea dove viene a contatto con l’inferno vero e proprio, contrae la malaria, assiste agli orrori della guerra e perde il braccio sinistro, tutte esperienze che lo segneranno d influenzeranno enormemente la sua opera futura.

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Ritorna in Giappone a metà anni cinquanta e dopo un periodo come proiezionista in un cinema, passione ereditata da suo padre, debutta nel manga con Rocketman e nel 1959 trova il successo con il lavoro che lo consacrerà nel suo paese ed in tutto il mondo, GeGeGe no Kitaro, Kitaro dei cimiteri. Dal manga nel corso dei decenni vengono tratte ben sei serie animate, fra cui una diretta da Isao Takahata, e due live-action, ma è la vita dello stesso Mizuki a diventar fiction tv e film, di ottima fattura per altro, nel 2011 con GeGeGe no nyobo dove la sua quotidianità durante gli anni sessanta viene raccontata dal punto di vista della moglie. Ma come si diceva, Mizuki non è solo GeGeGe no Kitaro, nel 1971 infatti realizza uno dei lavori più impegnativi per qualsiasi artista in qualsiasi epoca, analizzare e sprofondarsi nelle radici del male.

Hitler è il titolo del fumetto, o graphic novel o geki-ga o manga, scegliete il termine che più vi aggrada, con cui il giapponese racconta la vita di Hitler, dal suo periodo come studente di arte squattrinato fino alla sua fine, passando dall’ascesa al potere e agli orrori della guerra.
Lo stile di Mizuki, come in altri lavori del genere, il già citato Showa, NonNonBa e il Giappone e la guerra su cui ritorneremo fra qualche istante, è allo stesso tempo informativo, con dettagli precisi sulla situazione storica e socio-politica dell’epoca, illustrati da immagini dal taglio realista e talvolta brutale, ma anche uno stile che non rinuncia a momenti di comicità e di fantasia.

Spesso alcuni personaggi irrompono nella narrazione per spiegare qualcosa o fornire il punto di vista dell’autore, uno degli esempi più ficcanti di questa miscela fra istanze realiste, dove le prese di posizione morali e politiche dell’autore non sono mai nascoste, e tecniche metanarrative, è magnificamente espresso nel succitato Nihon to senso, il Giappone e la guerra. Si tratta di un brevissimo lavoro pubblicato nel 1991 con cui Mizuki guarda direttamente in faccia ai crimini commessi dalle truppe giapponesi durante l’occupazione della Cina e della Corea, uno sguardo che è onesto e spietato ma che proviene da una persona che quando mise piede in Giappone dopo la fine della Guerra del Pacifico e vide il monte Fuji pensò fra se stesso «sono tornato» e «mi sento giapponese». La storia è davvero un pugno nello stomaco, non tanto per la sottigliezza del messaggio ma per la sincerità e l’onestà intellettuale con cui l’autore espone i fatti, per agevolare la lettura ai lettori più giovani a cui è rivolta, qui il narratore è Nezumi-otoko, l’uomo topo, uno dei personaggi più popolari del pantheon di Mizuki, che ritroviamo fra l’altro anche nel capolavoro Showa.

Con Mizuki se ne va l’ultimo grande manga-ka ad aver fatto esperienza diretta della guerra, un artista ispirato dalle leggende della tradizione orale, ma con i piedi ben piantati nel corso e nel fango della storia. Proprio a dimostrazione di questa sua ampiezza di vedute, senso pratico ma anche senso del comico, è interessante ricordare che il suo rapporto verso l’arte e verso il suo lavoro in generale era molto più «rilassato» e meno ossessivo di alcuni suoi colleghi. Mizuki una volta sentendo che Osamu Tezuka e altri (morti prima dei settant’anni) in passato avevano detto e quasi si erano vantati di dormire solo tre ore a notte e scrivere 400 pagine al mese, aveva risposto ridendo «dormo nove ore al giorno e guardami, sono ancora qui. Mentre tutti gli altri sono morti!».