Potremmo partire da uno dei recenti lavori di Shirin Neshat per introdurci nel suo immaginario, in cui confluiscono fotografia e immagini in movimento. Partire cioè da Illusions and Mirrors, un breve ma intenso trailer commissionatole dalla Viennale per l’edizione del 2013, incentrato sulle visioni oniriche di una donna (Natalie Portman) su una spiaggia deserta e sul suo rincorrere misteriose presenze, i fantasmi del suo passato o del suo inconscio. Come sempre è il bianco e nero a dominare e a colpire nei film di Neshat, in questo caso c’è un omaggio evidente al surrealismo: Illusions and Mirrors è debitore di Meshes of the Afternoon e in un’inquadratura il personaggio femminile, con le mani poggiate sul vetro della finestra, replica la stessa posa di Maya Deren nel suo film girato oltre 70 anni fa. Quasi un dialogo a distanza tra due cineaste, entrambe trapiantate in una cultura diversa da quella di origine.

Una delle prime installazioni video che ha fatto conoscere a livello internazionale questa artista iraniana (nata a Qazvin nel 1957 e ora residente negli Usa) è Turbulent (1988): potente metafora – visualizzata attraverso il canto – dell’alterità tra maschile e femminile, complementari eppure inevitabilmente separati, in una cultura, come quella islamica, che tende ad annullare la donna, negarne la visibilità e la sessualità. Sullo schermo sinistro un cantante (Sharam Nazzeri) si esibisce di fronte a una platea di soli uomini, mentre su quello destro una cantante (Sussan Deyim, collaboratrice fissa della Neshat), che è stata di spalle fino a quel momento con la sua silenziosa silhouette, replica modulando la sua voce, avvolta nell’oscurità, davanti a una platea vuota: in Iran, infatti, alle donne è proibito cantare in pubblico.

Il bianco e nero – che Neshat afferma di prediligere al colore – è un elemento altamente simbolico, che ricorre qui come negli altri due lavori successivi, Rapture (1999) e Fervor (2000), capitoli di una ideale trilogia: gli uomini hanno la camicia bianca, le donne il chador nero. Il vuoto e il pieno, il visibile e l’invisibile, il positivo e il negativo, il buio e la luce. La suddivisione è ancora più evidente in Fervor (2000, anch’essa installazione doppio canale), con il ricorso alla specularizzazione dell’immagine. La divisione virtuale dello schermo replica un’altra partizione, quella reale di una sala dove un predicatore invasato tiene il suo discorso davanti a una platea perfettamente divisa a metà da un lunghissimo telo nero. Le donne da un lato, gli uomini dall’altro. Ciò nonostante un uomo e una donna si lanciano sguardi di passione, violando le regole, rompendo la barriera che li separa. Ma nell’incipit così come nell’excipit del video, i due sono coNdannati alla solitudine: ciascuno va per la sua strada, il desiderio è osteggiato da una rigida geometria visuale che impedisce per sempre ai due di incontrarsi.

Un’altra componente rilevante dell’immaginario che Neshat ha costruito installazione dopo installazione, film dopo film, è il rapporto con lo spazio, con il paesaggio nel quale l’artista inserisce i suoi personaggi, come su una scacchiera, con una precisione quasi geometrica. Paesaggio architettonico – pensiamo a Soliloquy (1999) – ma soprattutto naturale: Passage (2001) è una delle opere più riuscite in questo senso, riflessione sul tema della morte e del ritorno del corpo alla madre terra, accompagnata da un canto primordiale che ricorda le doglie del parto, i gemiti di un orgasmo o le voci di un rituale collettivo. Un discorso ancestrale sull’interfaccia corpo/natura che ritorna anche in Tooba (2002), dove il fulcro simbolico-narrativo è un grande albero, attributo di un rituale che vede contrapporsi ancora una volta femminile e maschile. Girandolo in Messico, Neshat allarga maggiormente il gioco di equivalenze iconografiche e antropologiche tra culture diverse. Il binomio femminile/naturale, strettamente collegato a temi come la sessualità, la fertilità, l’identità, è al centro di Mahdokht (2004), un lavoro particolarmente surreale e molto significativo per l’uso del colore (la fotografia è di Ghasem Ebrahimian, che ha collaborato a lungo con l’artista).

Per quanto molto semplice, la narrazione che emerge da questi video è un germe che si è gradualmente sviluppato fino a configurarsi in un vero e proprio lungometraggio a soggetto: Women without Men, ispirato al racconto di Shahrnush Parsipur e vincitore nel 2009 di un Leone d’Argento alla mostra del cinema di Venezia. In quello che resta al momento l’unico film narrativo di Neshat – storia di quattro donne sullo sfondo della rivoluzione islamica – il realismo sociale si intreccia all’onirica scansione di eventi e rituali. Per quanto il risultato sia un ibrido non sempre riuscito, contiene alcuni momenti di grande potenza lirica e sono forse quelli in cui Neshat si preoccupa meno del plot e crea sequenze che hanno una loro forza autonoma. Women without Men è comunque il punto di arrivo di un progetto articolato in cui confluiscono diversi video precedenti, mono e pluricanale, da Pulse (2001, che costituisce una seconda trilogia insieme a Possessed e Passage) a Zarin (2005), da Munis (2008) a Faezeh (2009). Naturalmente la realizzazione di opere basate sulle immagini in movimento, per la Neshat va di pari passo con la creazione di lavori fotografici, totalmente autonomi oppure desunti da film e installazioni, come nel caso di numerose stampe fotografiche ai sali d’argento, cibachrome, C-print, ecc. Pensiamo alle serie Rapture, Passage, Tooba, Zarin, che fissano momenti chiave delle sue visioni cinetiche metafisiche e surreali.

L’occasione per conversare con Neshat ci è stata fornita dal suo passaggio a Bari, dove è venuta qualche settimana fa per allestire un lavoro performativo dal titolo Passage Through The World. Al Teatro Margherita, insieme al suo compagno di vita Shoja Azari e al cantante iraniano Moshen Namjoo, l’artista ha messo in scena un’operazione di carattere etnomusicale, in cui converge la performance e il video (seppure utilizzato in modo minimale). Lo spunto tematico è il pellegrinaggio, dunque il cammino spirituale che si interseca con visioni sulla passione e sulla sofferenza contemporanea. Grazie anche alle donne lamentatrici della città vecchia di Bari, Neshat ha potuto creare l’ennesimo parallelo tra cultura solo geograficamente distanti: la sua, mediorientale, e quella del nostro meridione.

Per quale ragione ti sei concentrata soprattutto sulle immagini in movimento rispetto ad altre forme espressive come la fotografia e la performance?
Penso che ci siano molte motivazioni, una delle quali nasce dall’esigenza di raccontare delle storie. La narrazione per me ha qualcosa di fantastico. Tutti amano sentirsi raccontare delle storie. Nel mondo dell’arte tutto ha a che vedere con l’idea di concept che, la maggior parte delle volte, è astratto, e si rivolge a coloro che hanno davvero una buona formazione in storia dell’arte. Lavorare con il cinema, invece, ti apre ad un pubblico più ampio ed è una sfida per l’artista visivo, che deve capire come articolare lo storytelling, a come renderlo comprensibile. Ogni artista che parte dalla fotografia, inoltre, prima comincia a sperimentare le tecniche del video e poi con il cinema affronta una naturale progressione.

L’apporto di tuo marito, Shoja Azari, è fondamentale. Puoi spiegarci che tipo di collaborazione si è instaurata negli anni tra voi?
Shoja è un videoartista e un filmmaker come me. Devo dire che siamo accomunati da visioni simili. Quando abbiamo un’idea sentiamo di doverla condividere e analizzarla insieme. Non c’è mai stress. Anche se non siamo d’accordo, rispettiamo molto il parere l’uno dell’altro, perché non siamo in competizione. Le nostre estetiche e i nostri approcci sono molto diversi. E penso che questo sia un dono. Prima di parlare con qualcuno di qualsiasi cosa, ne parlo con Shoja e collaboriamo molto insieme: nel suo ultimo film da regista, ad esempio, io gli ho fatto da producer e, viceversa, lui è il produttore esecutivo dei miei film. Ci aiutiamo l’un l’altro per far sì che i progetti diventino realtà in modo pratico e anche finanziario. Ci diamo un supporto fondamentale. C’è grande rispetto: se lui prende una decisione per un suo progetto, io non entro nel merito ma, al contrario, se a me non convince qualcosa del mio lavoro posso parlargliene.

Come mai hai scelto per molto tempo di girare i film e le installazioni in 16 e 35mm piuttosto che in video?
Alla fine sono approdata anche io al digitale. Credo però che negli occhi di ogni persona, la visione old-fashioned ha qualcosa di veramente romantico, a partire dalla texture. Ma ora le cose sono cambiate, ci sono parecchie correzioni da apportare dopo lo shooting.

L’aspetto performativo e coreografico, anche quando si limita alla semplice disposizione di una figura, maschile o femminile, all’interno dell’inquadratura, è sempre rilevante e ha un’importanza altamente simbolica, tanto da sostituire qualsiasi possibile narrazione. Sei d’accordo?
Hai ragione. La narrazione e i personaggi possono essere molto simbolici. In Women without Men, per esempio, tutti i personaggi incarnano un ideale. Ad esempio Munes rappresenta una donna che sacrifica tutto per la giustizia sociale e per la sua nazione. Zarin, la prostituta, simboleggia una donna che è stata sacrificata dalla sua cultura per ciò che rappresenta e alla fine deve scontare con la vita. All’interno della narrazione la morte di Zarin – ricordo che io e Shoja ne parlammo – ha una relazione diretta con la dimensione simbolica. Anche la scoperta del giardino nel film diviene un simbolo di rinascita. Ci sono simboli che spesso sono nascosti e non possono essere individuati al primo sguardo. Con la narrazione costruisci degli strati di senso, ma non tutto è sempre davanti ai tuoi occhi.

Hai mai avuto problemi da parte del potere politico islamico nel realizzare i tuoi lavori, pur girandoli in paesi come il Marocco?
No, non ho mai avuto dei problemi, anche se a volte abbiamo dovuto evitare alcuni luoghi politicamente «caldi». In generale ho sempre lavorato con molta tranquillità. Le mie opere hanno una forte valenza politica, eppure non sono mai stata direttamente censurata per il mio lavoro. Gli arabi, così come le persone provenienti dall’Iran, mi conoscono come un’artista politica. Le autorità, ad ogni modo, non mi hanno mai creato problemi in questo senso.
Tu non vai più in Iran dal 1997, ma da iraniana residente negli Stati Uniti come stai vivendo i recenti e positivi cambiamenti nelle relazioni tra i due paesi?
Sono entusiasta, soprattutto per le persone che vivono in Iran, inclusa la mia famiglia. Le sanzioni rendono la vita difficile per ragioni soprattutto pratiche, economiche, sanitarie. Le persone con il diabete non trovano l’insulina, le persone con il cancro hanno difficoltà. Insomma, credo sia orribile che le persone vengano private di cose basilari. Penso tuttavia che una maggiore cooperazione renderebbe le cose più semplici e le porte si aprirebbero ancora di più. Ciò che rimane un po’ incerto nei rapporti diplomatici tra Usa e Iran è che c’è una grande quantità di persone che non ha l’opportunità di ritornare nel proprio paese e sarebbe molto bello se questo potesse nuovamente accadere.

Hai scambi professionali o intellettuali con registi iraniani come ad esempio Kiarostami, Naderi o Makhmalbaf?
Shoja e io abbiamo un forte rapporto con la comunità di artisti, scrittori e registi provenienti dall’Iran e ci siamo visti in Europa, negli Stati Uniti. Alcuni sono venuti a farci visita. Inoltre molti collaboratori sono iraniani, così transitano per il nostro atelier pittori, registi, musicisti, professionisti di teatro…Insomma siamo quotidianamente molto connessi con il nostro Paese e, per quanto ci è possibile, informati su tutto ciò che succede in Iran.

Nelle tue opere emerge un rapporto con il paesaggio e con gli elementi naturali tipico della tua cultura: mi sembra qualcosa che ti accomuna all’estetica di altri cineasti iraniani…
È interessante ciò che dici. Tanto il paesaggio naturale che quello architettonico sono chiavi importanti per comprendere il mio lavoro. Il paesaggio architettonico per me rappresenta tanto la cultura occidentale quanto quella islamica. L’architettura esprime il senso del potere, su basi ideologiche. La natura è più poetica, più mistica, più personale, più emozionale. Penso che ciascuno di noi scorga qualcosa di divino nella natura, qualcosa che è legato all’idea di pace. La mistica che per me emerge dall’elemento naturale diventa poesia non appena lo metto in scena attraverso le immagini in movimento. Non a caso in fotografia non uso mai il paesaggio, ma solo il ritratto.

Puoi parlarci dell’importanza del suono nei tuoi film, mono e pluricanale, e di come lavori su questo elemento? Penso anche al rapporto con grandi compositori quali Glass e Sakamoto.
Ho lavorato fin da subito con il suono. I miei primi video erano letteralmente dominati dalla musica. Anche la voce era preminente, ma a un certo punto mi sono resa conto che dovevo essere più sobria. Con Philip Glass ho imparato l’uso del suono e le emozioni che possono derivarne, anche grazie alla voce – perché in fondo Glass la adopera come un vero e proprio strumento. Mi sono resa conto che utilizzavo un suono troppo invasivo, così nei video successivi ho cominciato a lavorare su questo aspetto, ottenendo un effetto veramente minimale, molto evocativo e suggestivo in termini di atmosfere. Molto spesso, infatti, si ha come la sensazione che la componente auditiva predomini su quella visiva. Nel caso di Passage sono stata molto felice della mia esperienza con Philip Glass, che ha composto una colonna sonora così melanconica, così efficace nel tradurre le emozioni di uomini e donne. Adoro in particolare l’uso delle percussioni. Nonostante ciò, da quel momento, ho cercato di diminuire il ruolo della musica. In Women without Men ho lavorato con Ryuichi Sakamoto e lui è stato molto attento a lasciare momenti di silenzio, un silenzio animato dai suoni della natura, consentendo allo spettatore di sentire lo spazio e sentirsi nello spazio. Ho dovuto negoziare a lungo con lui, ma Sakamoto alla fine si è trovato d’accordo. La mia nuova impostazione è di essere più strategici nell’uso della musica.

Il passaggio al lungometraggio narrativo è stato preparato da una serie di opere che lo precedono. Cosa ti ha spinto ad affrontare un’operazione nuova e rischiosa come «Women without Men»?
Gli artisti vogliono sempre molto di più. Si vive una volta sola ed io ero molto annoiata, sentivo una sorta di stagnazione che mi preoccupava, avevo paura di diventare quel tipo di artisti che fanno sempre le stesse cose. Se mi annoio, pensavo, il lavoro ne soffre. Ma se invece mi sento sulla soglia di un nuovo inizio, se mi sento sotto pressione, posso creare nuovi progetti. Insomma, ho bisogno di entusiasmarmi. Così ho cercato di mantenermi in questo stato di perenne eccitazione.

Naturalmente passando dalle arti visive al cinema cambia anche il tipo di pubblico cui ci si rivolge.
Per me, nello specifico, è stato proprio questo cambio di pubblico il motivo della mia scelta. A me piace moltissimo lo spettatore generalista, la persona che va al cinema non perché ha una profonda comprensione del mezzo, ma perché vuole ascoltare una storia in particolare. Il mio lavoro è ricco ad esempio di contenuti socio-politici, spesso destinati solo alla comunità dell’arte, ed è molto importante prendere questi materiali e proporli alle persone normali. Naturalmente uscendo fuori dai musei e delle gallerie, ed entrando, invece, nei teatri, dove la gente paga per sedersi due ore ed essere intrattenuta. Per un artista sapere che le persone sono lì per te e tu puoi inviare loro messaggi potenti, trasmettergli visioni bellissime, fargli vivere un’esperienza, è molto gratificante. Nel mondo dell’arte è tutto più labile, pochi sono realmente concentrati. Il teatro ti propone invece un’esperienza ricca di concentrazione. Infine il cinema è un progetto a lungo termine, mette in campo anni di lavoro e non si esaurisce rapidamente. Quando dipingi e fotografi, l’esperienza è spontanea, avviene in studio. Il cinema o il teatro ti impongono di uscire fuori dal tuo atelier, incontrare il mondo, lavorare con persone che hanno competenze differenti, imparare da loro. Non è un lavoro in solitaria.

Nonostante l’uso del colore, mi sembra che continui a prediligere il bianco e nero sia per i lavori fotografici che per i film: penso anche a «Illusions & Mirrors».
Si, non mi piacciono molto i colori. Di recente ho sentito dire: «se fotografi le persone a colori, stai ritraendo i loro vestiti, ma se le ritrai in bianco e nero stai riprendendo la loro anima». È molto vero. Con il bianco e nero togli tutte le cose superflue e raggiungi ciò che è fondamentale. Il colore è seduttivo, ma è pericoloso in un certo senso. C’è una profonda bellezza nel bianco e nero. Sono molto affascinata dai classici, meno dai coloratissimi e scintillanti film di Hollywood. In Women without Men ci sono ovviamente dei colori, anche se mi sono orientata verso una cromia anni ’50, desaturata, che mi piace tantissimo. Su questi colori abbiamo fatto una lunga ricerca e un accurato lavoro di color-correction.

In «Illusions & Mirrors» vi sono alcuni riferimenti al cinema surrealista (mi riferisco all’uso di immagini deformate, tipo «Etoile de mer» di Man Ray) e neosurrealista (ovvero i film di Maya Deren). Qual è il tuo rapporto con l’avanguardia?
Illusions & Mirrors e altri miei video più recenti sono molto onirici. Ci sono tre personaggi che sono dei sognatori: tre donne dormienti. Si, rappresentano un tributo ai film surrealisti di Jean Cocteau, Man Ray, Luis Buñuel, Maya Deren, ma anche a Chris Marker e Ingmar Bergman. Nel realizzare questi tre film ho avvertito la sensazione di tornare indietro, cioè guardavo ad un altro periodo storico, quello surrealista, ma in un modo tutto contemporaneo. Per questo abbiamo usato un sacco di tecniche: ad esempio il vetro davanti alla videocamera, per ottenere degli sfumati e altri effetti per creare delle ombre, degli sdoppiamenti. Penso che nei miei ultimi video ci sia parecchio di questi artisti, combinati con la mia attività onirica e con l’apparizione di mia madre che compare in tutti i miei sogni. Mi piace molto la libertà dei surrealisti.

Stai pensando a un nuovo lungometraggio o preferisci continuare a creare installazioni e girare film più sperimentali come «Illusions & Mirrors», da presentare soprattutto nei contesti legati alle arti visive?
Un po’ tutto questo. È dal 2011 che siamo impegnati con il nuovo film e ora siamo ormai arrivati al 2016! Adesso sto anche realizzando un film su un musicista egiziano morto negli anni ’70. Ho quasi tutto pronto. E questo sarà il mio, anzi – dal momento che Shoja è come sempre coinvolto –, il nostro prossimo grande progetto.