Non v’è giorno che il cielo mandi in cui non si registri qualche nuovo episodio di malaffare. La stampa fa scandalo. La politica strumentalizza nelle forme più bieche. Nessuno che sfugga invece al moralismo antipolitico e alle grida manzoniane di cui la legge Severino e l’Autorità anticorruzione sono ultimi esempi. Salvo che chi vince le elezioni promettendo rinnovamento e onestà, l’indomani è sui giornali con qualche imputazione a carico. Ecco perché l’azione di governo s’indebolisce e aumenta il malessere dei cittadini. Quando servirebbe capire le ragioni sociali del malaffare e ad esse commisurare i rimedi.
Un tentativo di comprendere l’ha fatto la Fondazione Res di Palermo (uno dei più qualificati centri di ricerca nazionali, promotore di preziose indagini su aspetti essenziali della nostra vita collettiva: scuola, sanità, università, mafie al sud e al nord, www.resricerche.it). Per suo conto un valoroso gruppo di giovani ricercatori, guidato da Rocco Sciarrone, ha redatto un circostanziato Rapporto, che ha il pregio di non misurare la corruzione attraverso la sua percezione. Che è quanto fa Transparency international, che approssimativamente richiede agli imprenditori di confermare la reputazione di malaffare che affligge la politica italiana.

Ben diversamente questa ricerca ha con pazienza radunato i tasselli offerti dalle sentenze della Cassazione e dagli atti della commissione parlamentare sulle autorizzazioni a procedere. Che non diranno tutto quanto piacerebbe sapere, ma che offrono pur sempre un solido pavimento per stabilire confronti a) tra le varie regioni, b) tra un tempo e l’altro della vita politica, c) tra le varie forme di corruzione politica.
Questi, semplificando, i risultati: a) vi sono differenze, ma non clamorose, tra nord e sud, b) si osserva un consistente incremento della corruzione post-Tangentopoli. Il terzo elemento offerto dalla ricerca sta nel cambiamento delle pratiche corrotte e nella trasformazione delle configurazioni corruttive. È il risultato più interessante e ne vanno intese le ragioni.
In passato, alla luce delle indagini di Tangentopoli, il paesaggio della corruzione era semplice. I partiti avevano bisogno di risorse finanziarie, che reperivano anche in forma poco limpida. Il reperimento avveniva comunque in funzione delle finalità politiche del partito. Che qualche personaggio ci abbia costruito una fortuna personale faceva parte della storia. Ma la corruzione era regolata dai partiti.

La novità che la ricerca intravede – meritevole di ulteriori accertamenti – è il costituirsi di reticoli corruttivi operanti a cavallo tra politica ed economia. Si fa politica per fare affari, si fanno affari per far politica. I reticoli sono più persistenti nel tempo e la loro composizione è cambiata. Oltre ai soliti politici, imprenditori e pubblici funzionari, spicca il moltiplicarsi degli intermediari: consulenti, professionisti, cosiddetti esperti, spesso provenienti dalla sfera privata.
Qui cautamente, e opportunamente, i ricercatori si fermano. Ciò non impedisce di avanzare un’ipotesi, che sottolinea il ruolo diverso che la politica svolge da tempo nella vita collettiva: essa è da tempo diventata gestione. Lo è diventata perché versa in gravi ristrettezze. Lo sviluppo è un ricordo, le entrate fiscali si sono ridotte. Mescolarsi con gli affari è stata inizialmente una soluzione per alleviare i problemi di budget e fors’anche quelli occupazionali. Ma la degenerazione era nelle cose. L’ipotesi è più agevole da illustrare con riferimento al governo locale.

Le città hanno cessato da un pezzo di essere pensate come spazio in cui la popolazione si addensa e ove si pongono questioni di ordine pubblico e di convivenza. Sono divenute piuttosto un capitale da mettere a reddito. In cui s’investe in grandi opere, riabilitazioni urbanistiche, centri commerciali, stadi di calcio, grandi eventi. Sono divenuti opportunità di profitto i servizi pubblici, l’assistenza, i musei, i teatri, le università. E la politica si è adeguata. I partiti odierni non si curano più di fidelizzare gli elettori offrendo beni pubblici, o erogando selettivamente benefici privati. Hanno inventato la rappresentanza «occasionale» (magari al prezzo di 80 euro) e delegato agli esperti di marketing la persuasione elettorale. I loro addetti, in quanto addetti al governo, viceversa negoziano, e fanno affari, con chiunque sia disposto a investire. Ciò ha reso i partiti altamente appetibili per chi sia interessato agli affari. Si sono sviluppate così imprese politico-economiche, infra e transpartitiche, che, coinvolgendo i pubblici funzionari reinventati come manager, disinvoltamente, e sinergicamente, si muovono sui terreni del voto e del profitto. La trasgressione delle regole che presidiano la separazione tra politica, economia, amministrazione e che si oppongono alla corruzione, è un rischio imprenditoriale come un altro.

La ricerca condotta da Res schiude una finestra. Più difficile è pensare ai rimedi. È facile auspicare che i partiti divengano più solidi e più attenti a difendere i loro confini. E che si adottino controlli più snelli e più severi. Serve una terapia molto più ampia. Anche alla luce di un’altra ipotesi. L’arcigna ricetta neoliberale, che ha inteso moralizzare la politica delegittimandola e riducendone la capacità di spesa, ed emancipando da essa le imprese, ha ottenuto l’effetto contrario. La riduzione delle disponibilità finanziarie delle amministrazioni pubbliche, accoppiata al generalizzato impoverimento della società post-welfare – particolarmente marcato in un paese come l’Italia che ristagna da un quarto di secolo – hanno accresciuti a dismisura gli incentivi alla corruzione. Tanto le imprese, quanto la politica, si arrangiano per campare. E la corruzione prospera.