«La motivazione alla competenza è oggi un tema centrale della scuola. E non ha a che fare con le votazioni conseguite – non si motivano gli studenti dando loro otto o quattro, questo casomai è un meccanismo che premia o punisce – ma con il desiderio di sapere e di imparare a fare qualcosa sempre meglio».
Clotilde Pontecorvo, docente emerito di psicologia dell’educazione all’Università La Sapienza e da cinquant’anni impegnata a ragionare intorno alla scuola e ai suoi «vizi&virtù» (è in corso di pubblicazione il libro È tempo di cambiare, per l’editore Valore italiano, a sua cura, insieme a Lia Stancanelli e Antonella Fatai) tiene a sottolineare che l’apprendimento non avviene mai in un luogo che si pone come un’isola dentro un contesto sfilacciato. La scuola che riesce ad attrarre a sé alunni/e, a suscitare interesse e a tenere incollati i discenti a sé è quella che si basa su una comunicazione sociale e favorisce una relazione fra pari. È proprio la vivacità di questo scambio che va considerata come la fonte essenziale dell’apprendimento. «L’offerta formativa non è qualcosa che si esplicita soltanto fra i banchi, al’interno di una classe – continua Pontecorvo -. In Finlandia dove si registrano i migliori livelli di rendimento, ogni paesino, anche il più sperduto, ha la sua biblioteca, che resta aperta fino a tarda sera, estate compresa. Stessa cosa accade in Trentino, altro luogo d’eccellenza. Le conoscenze di base (ma anche quelle superiori) sono così accessibili a tutti».

Oggi, nonostante gli insegnanti abbiano perso il loro prestigio sociale (sia a causa di una non valorizzazione economica del loro lavoro, sia per la dispersione delle comunità che eleggevano i loro «saggi»), per fare questo mestiere devi continuare a crederci, è necessario – sostiene ancora Clotilde Pontecorvo – «mantenere viva la volontà di comprendere gli studenti ed essere in grado di accogliere le loro proposte: se queste non arrivano, bisogna coltivare la capacità di facilitare la comunicazione. Non va dimenticato che l’Italia è anche il paese che ha prodotto don Milani… Ricordo anche che, quando insegnavo negli anni Sessanta, in molte famiglie, i figli erano i primi a frequentare le secondarie, i genitori facevano ancora i contadini…La scuola era dunque un presidio fondamentale».

Il punto di forza del «modello italiano» è da rintracciare nella scuola elementare ma anche d’infanzia: sono approcci all’educazione che vengono studiati anche fuori confine, in America e in Nord Europa. Il 1985, anno della riforma che cancellò l’impostazione data nel ’29, sotto l’egida fascista, ha rappresentato il momento di svolta. «La caratteristica della nostra scuola primaria è che l’apprendimento si basa sull’autonomia dei bambini e su una attitudine, da parte dei docenti, all’ascolto… Cosa penso invece dell’Invalsi? È un indicatore di una competenza minima – capire cosa si legge – ma la scuola non può ridursi solo a questo. È più importante che in un istituto si conseguano risultati alti o che sia comodamente raggiungibile, favorisca lo scambio, si possa imparare qualcosa anche dagli altri/e compagni/e?».

E in merito alla Buona Scuola, cosa si può dire? «Va riconosciuto che ha tentato di porre rimedio alla produzione di precariato e di regolare il reclutamento dei docenti. Non sappiamo ancora quanto ci sia riuscita in maniera efficiente, a giudicare dalle proteste… Ma il vero problema è la mancanza di formazione continua. Non c’è un serio impegno del ministero, un investimento sistematico e non affidato all’offerta di 500 euro che i singoli possono utilizzare volontariamente per l’aggiornamento»