Il Paese sta attraversando una fase economica spesso valutata con un ottimismo che è comprensibilmente beneaugurante ma, non di meno, risulta anche forzato e strumentale, specialmente quando si scontra con dati drammatici come l’aumento della mortalità sui luoghi di lavoro che non può essere attribuito al «destino cinico e baro».

Alcuni sottolineano l’imminente crescita del Pil (ma, dall’inizio della crisi nel 2008, più volte speranze analoghe sono andate smentite e, nel frattempo, le cause strutturali della crisi non sono intaccate); altri evidenziano aumenti nell’occupazione (ma i dati utilizzati spesso sono parziali, cioè solo quelli con il segno positivo dei nuovi occupati, dimenticando la diminuzione dei preesistenti); altri ancora parlano di una ritrovata solidità della finanza pubblica, prefigurando un taglio delle tasse che dovrebbe far crescere gli investimenti e, quindi, gli occupati (ma le pur necessarie politiche di Quantitative Easing, convivendo con aspettative incerte dei consumatori e delle imprese che frenano l’economia reale, stanno gonfiando nuove bolle che minano gli equilibri finanziari).

Ma nel frattempo arriva un dato inedito e per alcuni versi di controtendenza: nei primi otto mesi del 2015 ci sono già stati 752 infortuni mortali nei luoghi di lavoro. Un fenomeno grave, che diventa allarmante se consideriamo che la crescita percentuale è del 15%.

Cosa si nasconde nella scatola nera dell’aumento degli incidenti mortali dei lavoratori?

La crescita del Pil prevista per il 2015 (0,8% secondo il Fmi, 0,9% per il Governo e 1% per il primo ministro), comunque più contenuta rispetto alla media dei Paesi europei, forse non è figlia di buoni investimenti e buon lavoro. Se insieme alla crescita del Pil registriamo un aumento senza precedenti degli infortuni nei luoghi di lavoro, evidentemente non tutta la crescita economica e occupazionale è coerente con la necessità di migliorare e specializzare il tessuto produttivo nazionale.

Il così detto «lavoro buono» – ad alto contenuto tecnologico e nei servizi – è caratterizzato in misura marginale e ridotta dal fenomeno degli infortuni. Queste caratteristiche delle diverse tipologie del lavoro dovrebbero far riflettere gli opinion maker sulla natura della nostra attesa «ripresina» e sul presunto ruolo positivo attribuito allo stesso Jobs Act.

Se la crescita economica italiana continua ad essere (da un quarto di secolo) più contenuta della media europea è perché la sua qualità continua ad essere di basso livello; il suo sistema produttivo si colloca sempre più in basso nella divisione internazionale del lavoro, accentuando una specializzazione in settori maturi dove la competitività è affidata alla riduzione dei costi, inclusi quelli della sicurezza del lavoro; la crescita degli infortuni mortali dei lavoratori è un serio e drammatico indizio che lo conferma.

Gli incentivi dati alle imprese per assumere tendono ad essere utilizzati per sostenere la produzione industriale già in essere e per tradursi in profitti. È la solita e reiterata politica dell’imprenditoria nazionale che punta essenzialmente alla competitività di prezzo. Sebbene il paese necessiti di una rivoluzione produttiva – «cambiare il motore della macchina senza fermarla» (Riccardo Lombardi) -, il Paese non ha ancora trovato né l’imprenditore innovatore di J. Schumpeter né la politica che lo incentivi.

Sebbene gli appelli del Presidente della Repubblica e della Ministra della salute sottolineino la necessità di strategie per assicurare livelli sempre più alti di tutela, il consistente aumento degli infortuni interroga tutti in profondità sulla politica economica, la politica industriale e le politiche del lavoro in atto nel Paese.