Hanno approfittato dell’anomala tempesta di sabbia che da giorni soffoca Libano, Palestina e Siria. Scarsa visibilità, difficoltà per l’aviazione siriana di bombardare dall’alto: così, dopo due anni di assedio, è caduto l’aeroporto militare di Abu Duhur, una delle più importanti basi dell’esercito siriano, l’ultima ancora controllata dal governo nella provincia nord-occidentale di Idlib. È caduta in mano al braccio di al Qaeda in Siria, il Fronte al Nusra, sostenuto dal Jaish al Fatah, «federazione» di gruppi estremisti, molti considerati creature dei paesi del Golfo e della Turchia.

Una sconfitta cocente per Damasco che vede evaporare il controllo esercitato su Idlib, oggi roccaforte qaedista dopo la conquista del capoluogo a marzo. Cocente anche perché il disastrato esercito siriano, ridotto all’osso da defezioni, morti e ferimenti, si è ritirato dalla base. Solo alcuni militari sono rimasti a combattere intorno all’aeroporto: ieri scontri limitati erano ancora in corso.

E mentre al-Nusra celebrava la vittoria, pubblicando nei social network foto di miliziani in posa con gli aerei da guerra del presidente Assad, la tv di Stato ammetteva l’uscita di scena da una provincia strategica perché a metà tra Aleppo (dove ribelli moderati e islamisti si contendono il capoluogo con Damasco), Latakia roccaforte del presidente Assad e la Turchia. Ad Idlib non c’è il governo, ma ci sono sacche di resistenza da parte di Hezbollah e miliziani sciiti. Mantengono le posizioni dentro i due villaggi di Kafraya e Foa, assediati da settimane da al Qaeda e ormai quasi privi di cibo e medicinali, tanto da scatenare proteste di piazza a Damasco, Homs e Aleppo. Gli stessi villaggi per cui scese in campo la diplomazia iraniana che, attraverso contatti diretti con la Turchia, ha tentato di porre fine all’assedio. A dimostrazione che Assad può essere «scavalcato» anche dal suo più vicino alleato, Teheran.

A difesa di Idlib e della base di Abu Duhur non si sono visti i jet statunitensi, né i voli di ricognizione francesi proseguiti ieri per il secondo giorno consecutivo, né i raid britannici (a cui si aggiungeranno a breve quelli australiani, come annunciato ieri dal premier Abbott). La parzialità della risposta della coalizione alla minaccia jihadista spiega gli scarsi risultati di un anno di operazione anti-Isis: i target sono limitati alle aree che non rientrano nel 20-25% di territorio ancora in mano al governo di Damasco. La conseguenza è palese: in Siria si combattono innumerevoli conflitti, molti dei quali non diretti a frenare l’avanzata jihadista. Uno scenario che favorisce proprio lo Stato Islamico e il progetto transnazionale di cui è portatore.

In tale contesto la risposta del mondo è limitata dal conflitto di interessi e strategie delle due super potenze, Stati uniti e Russia. Mosca – che ha bypassato la chiusura dei cieli bulgari, ottenendo ieri l’apertura di quelli iraniani – è tornata sulla questione dei presunti soldati inviati in Siria, che Washington legge come il primo passo alla costruzione di una base aerea a Latakia. La portavoce del Ministero degli Esteri, Maria Zakharova, ha ripetuto che consiglieri militari russi sono nel paese per assistere la consegna di equipaggiamento a Damasco. «La Russia non ha mai fatto segreto della cooperazione militare e tecnica con la Siria», ha detto accusando l’Occidente di «strana isteria».

Più che isteria, ipocrisia: mentre la firma dell’accordo sul nucleare iraniano pareva aprire ad una soluzione diplomatica, fino a 10 giorni fa il segretario di Stato Usa Kerry discuteva con la controparte Lavrov dei benefici che un fronte anti-terrorismo più ampio avrebbe garantito alla lotta all’Isis. Sperava forse di affievolire il sostegno russo al nemico Assad. Eppure se Mosca decidesse davvero di intervenire militarmente in Siria – decisione che potrebbe arrivare ora, a 4 anni dall’inizio della guerra civile, a causa della costante perdita di terreno da parte di Assad – si potrebbe forse giungere alla fine del conflitto. Perché andrebbe a colpire al-Nusra e Isis dove i raid della coalizione non li colpiscono. Solo allora si potrebbe aprire una fase negoziale seria tra governo e opposizioni moderate.