Le ragioni di un amore che non muore affondano spesso nel passato più che nel presente. Forse perché l’amore non ha, per così dire, il senso della realtà, ma ha il senso del possibile, è parente stretto del non ancora e del non più. Che noi amiamo il comunismo – e che lo amiamo ancora – vuol dire che per noi il futuro esiste e non è soltanto la proprietà privata dei dominanti di oggi o di domani.
Vuol dire che l’amore che alimenta il passaggio del tempo, che rende possibili i progetti e i ricordi, non è possessivo, geloso, indiviso, ma collettivo ; che non teme né l’odio né la rabbia, non si rifugia disarmato nelle case, ma percorre le strade ed apre le porte chiuse.
Gli affetti, oggi si crede, sono un fatto privato e personale, e invece sono il luogo che il governo globale ha scelto di colonizzare, con la merce o con il terrore. Tutti abbiamo dei desideri e delle paure che non ci piacciono e che non vogliamo confessare, perché vengono dagli obblighi che ci sono imposti e non dalle inclinazioni di ciascuno. Per esempio, tutti questi altri terribili corpi sconosciuti che ci circondano cosa potrebbero condividere mai con noi se non le strade, i negozi ed i mezzi pubblici?
Eppure… Una possibilità dorme sotto le nostre dita stanche a fine giornata, negli sguardi vagabondi che lanciamo fuori dai finestrini, sulle altre macchine in fila sotto un cielo metropolitano. È la possibilità di scoprire che siamo tutti singolarità qualunque, egualmente amabili e temibili, prigionieri delle maglie del potere, in attesa di un’insurrezione che ci permetta di cambiare noi stessi.
Che noi amiamo il comunismo vuol dire che noi crediamo che le nostre vite impoverite dal commercio e dalle informazioni siano pronte a sollevarsi come un’onda e a riprendersi i mezzi di produzione del presente.