Joyce sarebbe meno Joyce senza A Portrait of the Artist as a Young Man? Senza quella lunga meditazione su se stesso, dalla infanzia di Baby Tuckuu al grande progetto futuro e, nel lungo arco di tempo, con le ritrovate identità, fragili e provvisorie, e le strategie di sopravvivenza: come atteggiarsi e fronteggiare il fuori mentre si contiene il maremoto interiore? Come giocare con quel giogo del linguaggio, l’inglese, lingua necessaria ma non sua. Se Shakespeare non avesse rischiato l’imponderabile confessandosi nei Sonetti, lo ameremmo di meno? Certamente, sì.
Ma Il ritratto dell’artista da giovane, promesso dal titolo, compare come fermo immagine solo nell’ultimo paragrafo dell’ultima pagina. «Benvenuta, o Vita! Vado a incontrare per la milionesima volta la realtà dell’esperienza e a forgiare nella fucina della mia anima la coscienza increata della mia razza» – così nella traduzione di Luciana Bianciardi, (Bur, introduzione di Tim Parks, pp. 292, €.10,00).

Molto vicina è la più recente traduzione di Franca Cavagnoli: Un ritratto dell’artista da giovane (Feltrinelli, pp. 280, € 9,50) che cura anche una ricca introduzione, biografia, bibliografia e un interessante commento alle sue scelte di traduzione. Nel passo appena citato, l’unica differenza sta nella versione di «forge», che Cavagnoli rende con «foggiare», e per giustificare la sua scelta risale ad altre occorrenze del medesimo termine, facendo di questa pratica un metodo assai utile nel caso di scrittori come Joyce, che nelle proprie pagine trascorrono senza soluzione di continuità dall’invisibile mondo mentale alla concretezza del reale.

Ai suoi traduttori Joyce lascia poco margine di scelta. Le sue frasi, tenute sotto stretto controllo, giocano simultaneamente in diversi campi di senso: arricchiscono i lettori del testo originale, ma inchiodano i traduttori a una scelta spesso dubbiosa. Un ritratto dell’artista da giovane si conclude con la preghiera del figlio, Icaro, in procinto di prendere il volo, al padre Dedalo, il sapiente artefice. «Vecchio padre, vecchio artefice, accorri ora e sempre in mio soccorso». Forse un’allusione a Pound – da Eliot appellato «il miglior fabbro» – che aveva aiutato, e molto, la crescita del Ritratto.

Da un saggio autobiografico del 1904, A Portrait of the Artist, ebbe origine la prima stesura di Stephen Hero, autobiografia ordinata cronologicamente che si fermò al venticinquesimo capitolo dei sessantatré progettati, uscito postumo solo nel 1944. Quell’ingenuo canovaccio, che già fissava ben alto il nome dell’eroe Stephen Dedalus, nella successiva elaborazione in cinque capitoli fu sottoposto a una sofisticata cura che lo trasformò nel sofferto Bildungsroman di un artista nuovo, provocatorio, luciferino.
Scriveva all’amico Cranly: «Non voglio servire quello in cui non credo più, sia che si chiami famiglia, patria o chiesa; voglio tentare di esprimermi nella vita e nell’arte liberamente e completamente per quanto potrò, usando in mia difesa le sole armi che mi permetto di usare – silenzio, esilio, astuzia».
Non possiamo dimenticare che in Stephen Hero Joyce ha formulato criteri estetici poi usati e abusati dagli scrittori moderni: epifania come improvvisa manifestazione spirituale che si lascia cogliere nella volgarità di un gesto o di un detto o nel ritorno di un ricordo; estasi estetica nascente dalla quidditas di san Tommaso, la cosa in sé luminosa e conclusa come l’apparizione della ragazza in mezzo all’acqua, che, immobile, volta verso il mare, offre allo sguardo incantato di Stephen il corpo seminudo. «L’immagine di lei gli era entrata nell’anima per sempre e nessuna parola aveva rotto il sacro silenzio della sua estasi. Gli occhi di lei l’avevano chiamato e a quel richiamo la sua anima aveva fatto un balzo. Vivere, errare, cadere, trionfare, ricreare la vita dalla vita!»

Ezra Pound, entusiasta dopo la lettura del primo capitolo, promosse la pubblicazione del Ritratto in «The Egoist», a puntate, dal 1914 al 1915, e successivamente nel dicembre 1916 per intero presso la casa editrice americana B.W. Huesch. Scrisse che niente era stato omesso nel Ritratto, «niente di così sordido che lui non sapesse trattare con metallica esattezza». Quel realismo – dai contemporanei accusato di oscenità –, incentivato dai personaggi che parlavano in prima persona con la propria voce, era doppiato dal richiamo simbolico delle onde, delle lacrime, dell’umidità che testimoniavano di un paesaggio interiore in continuo travaglio, di un viaggio per acqua verso una meta ancora incerta.
Conversando con Virginia Woolf, Eliot dichiarò che l’Ulisse «si fondava su Walter Pater con una pennellata di Newman», intuizione tanto più giusta se riferita al Ritratto. Difficile per un giovane artista sfuggire al contagio dell’estetismo di Pater. E sul prosatore preferito da Stephen, ecco quanto lui stesso dice: «Chi è Dedalus lo scrittore più grande?» «Newman, credo». «Il cardinal Newman?» domandò Bolan. «Sì, rispose Stephen.»

Più volte nel Ritratto, Stephen si riferisce alla «claustrale prosa dalle venature argentee di John Henry Newman, che fu protagonista dell’Oxford Movement e promosse la conversione al cattolicesimo di molti giovani intellettuali, tra cui il poeta G.M. Hopkins, già allievo e amico di Pater. Nominato rettore dell’università cattolica di Dublino nel 1854, riorganizzata come University College nel 1883 sotto la guida dei gesuiti, Newman ne fissò le alte finalità in un aureo libretto An Idea of University. Joyce vi entrò nel 1898, con una borsa di studio. Era già stato pubblicato nel 1848 il romanzo di formazione di Newman, Loss and gain, primo esempio di «University novel», in cui è raccontata la lotta spirituale di un giovane intellettuale che abbandona la Chiesa anglicana per farsi cattolico. Nel difficile passo il protagonista tiene ansiosamente la doppia contabilità di dare/avere, guadagni/ perdite, come farà Stephen.

«L’università! Dunque era passato oltre la sfida delle sentinelle a guardia della sua fanciullezza, che avevano cercato di tenerlo fra loro, di assoggettarlo e costringerlo a servire ai loro fini. Dopo la soddisfazione, l’orgoglio lo sollevò simile a lunghe onde lente. Il fine che era nato per servire, e ancora non vedeva, lo aveva portato a fuggire lungo un cammino ascoso …» Nell’attesa della rivelazione, il futuro lo investe con furia selvaggia, animale. Correvano all’impazzata nella sua mente «piedi di lepri e di conigli, piedi di cervi e cerve e antilopi, finché non li sentì più e ricordò solo la fiera cadenza di Newman: I loro piedi erano come piedi di cervi e sotto di loro le braccia eterne».