La sala buia, lo strumento illuminato, gli spettatori applaudono. Entra Keith Jarrett – vestito di nero – e si avvia con fatica verso il piano Steinway & Sons, quasi dovesse domarlo, raccogliendo i pensieri prima di lanciarsi nella composizione istantanea che è una lotta, dentro e fuori di sé. Siamo nella sala S.Cecilia del romano Parco della Musica, sono le 19 dell’11 luglio ed il pubblico è folto, motivato, pagante e plaudente come sempre nel caso di Jarrett.
Prima che inizino le note c’è tutto il complesso ed un po’ maniacale rito delle raccomandazioni: <>.

Da anni il pianista e compositore americano conduce una battaglia contro la “cannibalizzazione” dei suoi recital e di sé stesso; giusto, in un periodo in cui tutto – anche i concerti – sembrano passare per telefonini e tecnologie varie.

Quello che infastidisce è l’insistere (lo farà egli stesso almeno un paio di volte durante il concerto romano) sul fatto che sta facendo arte, che non va disturbato. Jarrett è ormai un musicista che non “include” il pubblico; il suo atteggiamento – e la comunicazione attorno a lui – fanno intendere che “noi”, dall’altra parte, possiamo solo assistere alla creazione, distanti e ben confinati al nostro ruolo passivo.

Ben altro atteggiamento, se si parla di grandi jazzisti, quello di Bobby McFerrin che da solo e in quella stessa sala è stato capace di far cantare tutti e di far sentire gli spettatori un po’ artisti e, soprattutto, partecipi alla sua creazione. Con Keith Jarrett ciò non è possibile e resta da capire se il pubblico gli sia ancora necessario.
Rituali e filosofie a parte, il pianista ha regalato ai presenti due intensi set e tre bis: la prima sezione del concerto è stata nervosa e, a tratti, monocorde, molto incentrata su tempi medi e una dimensione da ballad, da “canzone non cantata”; la seconda, più lunga e fluida, è scorsa toccando idee e sensazioni più variegate mentre nei bis, a parte un episodio del suo astratto funky, ha eseguito con gusto ed eleganza impareggiabili due ballad, in particolare un’impalpabile e vellutata ”Too Young to Go Steady”.
All’inizio del concerto Jarrett ha generato una matassa di suoni su tempo veloce e terzinato, spesso isocrono, matassa che si è andata stemperando e diradando. Poi la sua musica, divisa in episodi (complessivamente dodici), ha virato verso una cantabilità ora ispirata ora stucchevole, comunque tesa verso una risoluzione che non è arrivata. Dopo quasi mezz’ora di sosta, il pianista – come rasserenato rispetto alla ricettività e “serietà” della sala – ha inanellato sei episodi diversi. I primi due si sono snodati su pedale, in quello iniziale risuonavano le scale “spagnole” tanto amate da Miles Davis.

Poi Jarrett ha dato vita ad uno di quei pezzi tra gospel e soul che sono una “firma” dei suoi solo per dirigersi, in seguito,  verso un arpeggio ostinato che sapeva di “minimalismo romantico”. Ancora una delle sue “canzoni non cantate” (che in realtà egli canta alzandosi dallo sgabello e torcendosi davanti alla tastiera) per poi chiudere con un pezzo innodico, aulico, ottocentesco la cui atmosfera magica e ipnotica evocava   “Radiance Part 8” (registrato ad Osaka nel 2002).
Minuto, vestito di nero con pantaloni e camicia più grandi, quasi cadenti, Keith Jarrett si è inchinato davanti al pubblico e le sue braccia sono cadute verso il basso, come se perdessero vita e, dopo tanta tensione, l’artista sessantanovenne si afflosciasse simile ad una marionetta. Il pubblico sciama e parla, discute, si anima…

Dopo i recital di Parigi, Venezia, Roma (4, 8, 11 luglio) fino al 19 ottobre (duo con Jack DeJohette a Chicago) l’artista di Allentown non sarà in scena ma continuerà a cimentarsi con la musica.