In una realtà, quella di Roma e di questo Paese, dove gli esseri umani girano a vuoto, non si incontrano e spesso si riducono o alla comunicazione compulsiva o al silenzio, Simone Carella è stato per più di quaranta anni l’uomo dell’incontro e dell’invito. Avrei giurato che quasi lo facesse apposta a mettersi nei quattr’angoli della città a intercettare le persone. Trovarselo di fronte voleva dire entrare in contatto col mondo. E con gli altri, con le loro esperienze.
Accadeva spesso d’incontrarci in percorsi assolutamente diversi. Ogni volta era un abbraccio, ogni volta stabiliva un nuovo appuntamento. La sua era una sintonia profonda con la memoria e con i poeti. Per un rispetto profondo di quel lavoro borderline sull’inutile che tanto lo coinvolgeva. Ben sapendo che i poeti tra di loro spesso non solo non si amano, ma si uccidono se possono. Si disattendono, si cancellano dai loro ricordi, perfino dalle fotografie. Tutti nel limbo di una verità: che la presa di parola poetica non realizza, come si crede, l’ascolto dell’altro. Al contrario. E comunque tantomeno da parte di chi assume la stessa intenzione. Di questo atteggiamento disattento e criminale Simone faceva testimonianza, disbrigando spesso i conflitti e non solo quelli nel testo, perché l’ascolto e lo scambio avvenisse.
Non penso solo al Beat 72, a Castelporziano e alle sue tante edizioni, poi all’Ostia dei poeti fino alle letture al Teatro Colosseo. La sua vera, grande attitudine teatrale è stata quella di mettere insieme le persone per l’impresa di rappresentarsi, lì e ora. Essere tramite, congiunzione di intenti. Non in un altrove e non dopo. Il nostro teatro è necessario adesso: questa era l’arte di vivere di Simone Carella. L’evento e la sua possibilità erano sempre la sua sfida. Del resto come descrivere altrimenti il sorriso di Simone se non di sfida. Un sorriso in movimento, che fa scena, che ti apriva il respiro. Stupito come di chi scopre gli altri ogni volta per la prima volta, debole perché scoperto e vulnerabile ma gioioso come un bambino, ma sferzante e provocatorio contro il potere del rifiuto, l’arma più affilata di tutti i potenti. E tellurico, in contatto ai quattro capi del mondo con il nuovo e con i sommovimenti della parola, del gesto e del testo.