Quando sto per leggere un libro, specialmente se il suo titolo mi attrae e se, sfogliandolo, emana qualche segnale che mi coinvolge, adotto sempre un atteggiamento di ostilità premeditata. Temo infatti che il libro mi seduca subito attenuando almeno parzialmente le mie capacità di comprenderlo, di criticarlo o di apprezzarlo. Comincia così una specie di corpo a corpo durante il quale cerco in vari modi di utilizzare questa ostilità per dare vita a un confronto frontale con il testo. Spesso questa ostilità si ribalta poi in una partecipazione empatica oppure l’ostilità si attenua o si fa indifferenza. Tale ostilità non è però una diffidenza pregiudiziale. In breve non è che non mi fido del libro, voglio solo non farmi prendere dall’entusiasmo o abbandonarmi a una prematura impressione negativa. Dopo l’ostilità premeditata ci sono altre due modalità di lettura alle quali faccio di solito ricorso. La prima è la ricerca della struttura evidente del libro, ovvero il suo contenuto esplicito, la seconda un’interrogazione sul suo senso segreto, un centro tematico che non sta nelle sue pagine ma fuori di esse. Si tratta di un centro dislocato, una polarizzazione esterna e distante che si mette in tensione con il contenuto creando un campo gravitazionale intenso e durevole. Il centro visibile e quello esterno e segreto sono in conflitto permanente, e ciò costituisce gran parte del valore del libro.
Anche nei confronti di Ricordando Berlino, di Ilaria Gatti, ho seguito questo rituale, soprattutto perché la sua visionarietà, che appare già nelle prime righe, mi avrebbe conquistato quasi senza che me ne accorgessi. Esso fa pensare a una sinfonia costruita incrociando più piani di contenuto. Una sinfonia costruita su tre movimenti, accompagnati da temi ricorrenti che sfociano e si fondono in un crescendo dissonante nel quale accensioni improvvise e imprevedibili si risolvono in vertigini insondabili. Il primo tema è il mondo sotterraneo delle catacombe. Un mondo mobile, destabilizzato, illimitato e periodico, oscuro, umido, poroso, un sistema di grotte l’una dentro l’altra, di loculi, di pareti che si sfaldano, emblema della profondità psichica. Nel momento in cui questo mondo si presenta alla coscienza di Ilaria Gatti una nuvola di fantasmi emerge dallo sfondo. Ha inizio la formazione-rivelazione di un Pantheon personale che comprende le figure di Rachel Monique Sindler, Diambra de Sanctis ‒ la madre dell’autrice del libro ‒ Luisa Marazzi, Kimberly Mc Carthy, Irene e Maria, un’altra madre in attesa che la sua figlia, nata precocemente, faccia il suo ingresso sicuro nella vita. Come in un labirinto tridimensionale che cambia continuamente, le catacombe ostacolano il percorso di chi le sta esplorando ma al contempo lo accelerano, quasi invitassero gli attoniti visitatori a lasciare al più presto quel paesaggio di tenebre liquide.
Attraverso una scrittura che ricorda quella filmica ‒ c’è da ricordare a questo proposito che il cinema è uno dei principali interessi di Ilaria Gatti ‒ le catacombe si propongono, in un montaggio serrato, come una sequenza di immagini, alcune delle quali messe perfettamente a fuoco, altre volutamente sfumate. Dopo uno snodo topologico l’orizzontalità della fortezza ‒ l’archivio delle ossessioni ‒ succede allo sprofondare nei più profondi recessi della terra. In una sorta di dissolvenza incrociata il mondo claustrofobico del sottosuolo si dissolve senza alcun preavviso in un limite o, meglio, nella rappresentazione della situazione drammatica e crudelmente selettiva prodotta da una frontiera ideale o reale. La claustrofobia si presenta, così, in un altro modo, vale a dire non più come una reclusione fisica ma come una definitiva perdita di sé. Le storie di Mark Rothko, Louis Kahn, Ingeborg Bachmann, Paul Celan, Walter Benjamin, Sigmund Freud, Virginia Woolf sono raccontate con una coraggiosa freddezza che restituisce senza necessità di commenti la loro verità. È in questo spazio di confine che il padre della psicoanalisi incrocia i destini di due familiari dell’autrice, Carlo e Sante de Sanctis, il primo psichiatra, il secondo neuropsichiatra infantile, di cui Freud aveva letto con molto interesse una monografia.
Allo sprofondare nei più profondi recessi della terra e all’orizzontalità della fortezza si contrappone la verticalità della torre, il terzo tema musicale del libro. Se nelle catacombe c’è uno spirito borgesiano che rinvia alla Biblioteca di Babele, nella torre si respira un’aria piranesiana mescolata a echi delle visioni di William Blake e di Johann Heinrich Füssli. Lo spazio compresso della torre è fatto di gallerie avvolte a spirale, collegate da scale e da passerelle. Lungo le gallerie sono disposti armadi colmi di una moltitudine di mappe. I piccoli altari che lungo le strade rendono per un certo periodo visibile il rimpianto per qualcuno che lungo di essa ha perduto la vita; le piante della città che sono state teatri di morte, come Sarajevo o Varsavia; gli spazi dell’annientamento, come a Treblinka, le pietre d’inciampo descrivono un mondo segnato da un dolore che non vuole essere dimenticato né solo rievocato, ma ricostruito con un atto della volontà nel quale la pietas non deve attenuare la necessità della conoscenza.
Gli idealtipi della catacomba, della fortezza e della torre culminano nel Museo Ebraico di Berlino di Daniel Libeskind. Per Ilaria Gatti questo edificio propone un’esperienza mentale e sensoriale che attualizza gli scenari del sublime. Come in un incubo a occhi aperti o, come penso io, come in un parco a tema, l’orrore della Shoah viene messo in scena con un intento tra il didascalico e l’evocativo. Tuttavia il limite di questo edificio consiste nel fatto che l’esperienza della Shoah non è riproducibile ma solo rievocabile attraverso simulazioni che la svuotano del suo reale contenuto. Situata in un punto preciso delle spazio questo edificio è in realtà privo del luogo. Non è però un non luogo. È piuttosto un dispositivo che vuole azzerare istante dopo istante ogni coordinata spaziale e temporale astraendosi da se stesso per farsi apparizione incombente, autoritaria, indecifrabile.
In un orizzonte non più finalistico, ovvero in un momento in cui prevalgono visioni nichiliste della vita per le quali essa non avrebbe alcun senso oltre se stessa, la memoria è l’unico luogo in cui un’idea di salvezza continui ad avere un suo spazio e una sua verità. La memoria appare infatti come l’unica dimensione che oggi si oppone non solo alla desertificazione di ogni valore ma anche al tempo, assegnando a ciascun individuo il compito di conservare, finché vive, un senso residuale delle esistenze con le quali si è confrontato o che ha attraversato. Tale memoria non può essere ovviamente oggettiva e stabile. Essa è per sua natura congetturale, transitoria, composita e conflittuale.
Se l’idea di memoria come luogo di una salvezza residuale è il centro del libro, occorre ora comprendere quale è il suo antipolo segreto e lontano. La mia impressione è che tale centro oppositivo e divergente sia il concetto di metamorfosi, vale a dire quel processo per il quale non esistono cose ma entità che assumono istante dopo istante forme diverse, quasi per smentire i concetti di identità, di durata, di continuità. Le figure di questo drammatico e incessante cambiamento culminano nel libro con Alberto Gatti, il padre dell’autrice, che nelle fasi terminali della sua vita stava non a caso innestando un’architettura sua e di Diambra de Sanctis su un quadro di Leonardo. L’intuizione che aveva avuto consiste nel riproporre l’idea di forma come l’unico approdo della materia, nel senso che se la complessità non si risolve in una semplicità primaria e operante, inverata in una sola sostanza, finisce con il confondersi con ciò che è soggetto a una rapida consumazione, a un’entropia irreparabile. Solo ciò che ha forma è intrinsecamente immortale. La vita non ha una forma né un fine, ma solo forme cangianti, imprevedibili. Neanche la memoria può, a posteriori, trovare un vero senso alla casualità dell’esistenza. Ma se questo è vero è anche vero che la scrittura stessa non può sconfiggere questa indeterminazione genetica, questo spostarsi costante del senso in altre regioni semantiche. Per questo motivo Ricordando Berlino si configura come un’opera dal carattere stratificato ed evolutivo, preciso e insieme attraversato da rispecchiamenti di temi e di figure che mescolano i loro tratti in una sorta di indeterminazione che è sostanzialmente poetica, in quanto restituisce pienamente ciò che di aleatorio e di instabile gli esseri umani devono fingere di ricordare per essere tali. Resta da dire che il libro di Ilaria Gatti ha vinto alla fine la mia ostilità premeditata. In effetti non solo l’ho accettato, ma soprattutto l’ho ammirato e amato.