In questa lunga campagna referendaria c’è stato qualcuno che, anche su questo giornale, si è domandato dove fossero finite le ragioni di sinistra, riguardanti essenzialmente il rapporto tra eguaglianza e democrazia, per dire no alla riforma costituzionale.

Le risposte, soprattutto da parte della classe politica, si sono fatte attendere, ma sono arrivate forti e chiare quelle degli elettori, un po’ da tutte le parti in Italia.

Anche in questa tornata elettorale, è tornato prepotentemente a farsi sentire il tema delle periferie sociali, di quei ceti disagiati a cui nessuno riesce o vuole parlare.

Quello che emerge chiaramente dall’analisi del voto in città come Roma, Bologna o Napoli è che gli elettori, soprattutto quelli più svantaggiati, deboli o “marginalizzati”, hanno trasformato un referendum costituzionale (sulla modifica della Costituzione) in un referendum sociale, sulla propria condizione di vita e sul proprio status sociale.

Uno strumento tecnico è diventato una clava politica utilizzata dai ceti più deboli per mandare un segnale di insoddisfazione e malcontento nei confronti della classe dirigente, in particolar modo quella che oggi siede (o sedeva) al governo, e di una democrazia rappresentativa che non riesce più a rappresentare le esigenze, le preferenze, anche le paure, di una parte della società italiana che è “uscita” impoverita e impaurita da una crisi economica e sociale interminabile.

Queste tendenze elettorali sono emerse chiaramente dall’analisi territoriale del voto referendario a Roma, dove il “sì” si è ormai ristretto e rinchiuso nei quartieri della sinistra pariolina e salottiera.

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Un’immagine che ritroviamo anche a Venezia e, addirittura amplificata, a Torino, dove i sostenitori della riforma hanno prevalso soltanto nel centro storico.

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La mappa del voto in provincia di Venezia (fonte Prefettura)

 

Ma i dati più netti e significativi emergono da due città diverse per storia e tradizione politica, ma che servono ad illuminare – o forse a fare esplodere – le contraddizioni di un centrosinistra incapace di raccogliere i malumori dei ceti sociali più deboli e svantaggiati.

A Napoli, il voto contrario alla riforma renzian-boschiana si ferma al 58,4% nei quartieri agiati del centro, mentre si impenna al 72,9% nelle zone in cui sono meno numerosi i laureati, i tassi di occupazione sono più bassi, gli indici di affollamento abitativo più elevati e le professioni intellettuali meno diffuse.

In queste aree, il giudizio sull’operato del governo Renzi e sulla sua riforma costituzionale è stato trainato da un sentimento diffuso di disagio sociale che ha trovato una valvola di sfogo nello strumento, certamente imperfetto, del referendum costituzionale.

La seconda città dove emergono nitidamente le difficoltà del centrosinistra nei suoi rapporti con la componente più debole della società è Bologna, un tempo città-simbolo, se non il laboratorio, della sinistra italiana.

Già in occasione delle elezioni amministrative del giugno scorso avevamo assistito all’inizio di un divorzio tra le periferie sociali e quello che una volta, sotto le Due Torri, veniva chiamato il “partitone”.

Con i risultati del referendum di domenica, la crisi tra il centrosinistra e le nuove aree di marginalità sociale si sono ulteriormente rafforzate. I sostenitori della riforma prevalgono nelle sezioni elettorali e nei quartieri dove il reddito medio dei cittadini è maggiore, mentre il “no” vince proprio nelle zone relativamente più povere ed economicamente marginali. È anche tra i giovani o, meglio, nelle aree della città dov’è più alta la presenza giovanile, che il voto contrario alla riforma si rafforza.

Insomma, laddove c’è incertezza, precarietà e disagio sociale, la presenza o anche solo le soluzioni proposte dallo schieramento di centrosinistra non fanno più breccia.

Anzi, ormai assistiamo all’effetto opposto: una progressiva erosione del legame che un tempo univa i partiti di sinistra con i ceti più deboli e meno garantiti della società.

Se c’è (eccome, se c’è) una crisi della sinistra, peraltro non solo italiana, è proprio da queste dinamiche elettorali che essa può essere interpretata, capita e, nei limiti del possibile, anche risolta.

Forse ci si era illusi che bastasse cambiare la seconda parte, organizzativa, della Costituzione per vederne pienamente attuata e rispettata la prima, quella programmatica.

Un’illusione che è costata cara al presidente del Consiglio e di cui, però, l’intera sinistra italiana dovrebbe trarre qualche utile lezione. Prima che sia troppo tardi.

Marco Valbruzzi e Domenico Fruncillo sono ricercatori dell’Istituto Cattaneo