La minoranza Pd chiede a Renzi una svolta sulle politiche sociali del governo, il cambio dell’Italicum e la fine del doppio incarico segretario-premier. Alfredo D’Attorre è uscito da quel partito e da quella corrente. E al fatto che Renzi possa scendere a patti con la sua sinistra interna non crede. «L’appello a Renzi perché cambi è un rito magico. Neppure chi lo fa ci crede davvero», dice. «E comunque non si può ridurre tutto all’Italicum e al doppio incarico: se anche ci fosse un’altra legge elettorale, e un altro segretario del Pd, le politiche del governo resterebbero le stesse. Avverto anche che la reintroduzione del premio alla coalizione non ricostruirebbe di per sé il centrosinistra. Va sconfitto l’impianto economico e sociale della politica renziana. L’appuntamento per sconfiggerlo c’è: il referendum di ottobre».
Ma per ora solo D’Alema ammette di votare no. Bersani e i suoi votano sì.
Chi contesta la deriva del partito della nazione e invoca il ritorno del centrosinistra non può stare dalla parte del sì. Il sì sarebbe la definitiva affermazione del modello renziano. Il referendum è il vero congresso del Pd, chi vuole determinare un cambio di indirizzo, non può stare con Renzi.
Per la minoranza Pd è l’ultimo treno?
Non hanno votato l’Italicum, quindi hanno un argomento gigantesco per votate no. E l’Italicum di fatto fa parte del complesso sostanziale su cui si voterà a ottobre. Se vince il sì sarà la resurrezione del renzismo. Se vince il no è difficile che chi resta accodato a Renzi abbia un ruolo.
Per Renzi, ma anche per la minoranza, fuori dal Pd nulla salus. E le amministrative sembrano dimostrarlo.
Renzi vada piano con il requiem. Il risultato della sinistra è stato inferiore alle aspettative, ma non ovunque: penso fra gli altri ai casi di Sesto Fiorentino e Napoli. Certo a Torino e Roma non è andata come speravamo. I nostri candidati si sono battuti ma il voto è capitato nel momento peggiore per noi. Sinistra italiana non ha presentato il simbolo tranne che a Sesto, e il quadro delle alleanze è stato a variegato. Ma il nostro progetto parte ora.
Renzi ammette la sconfitta. Voi no?
Guardi che l’ho detto.
Il Pd ha perso molti voti, ma questi voti non sono andati a voi. Perché?
Ancora non siamo percepiti come strumento credibile e forte di cambiamento.
Quando attirerete quei voti?
Ora dobbiamo costruire una piattaforma di radicale novità rispetto al centrosinistra del passato. Renzi non è l’origine di tutti i mali, è l’estremizzazione di un ciclo di subalternità della sinistra ai vincoli europei e al paradigma liberista. Occorre una proposta nuova in termini di rottura dei vincoli europei, di nuova centralità del lavoro, dei diritti sociali e ambientali, e di un’idea della democrazia che non accetti più il sacrificio della rappresentanza in nome della governabilità. Non abbiamo in testa un ritorno al passato. Sconfiggere il renzismo non significa tornare al centrosinistra benpensante e allineato alle compatibilità europee e alle riforme strutturali. Insomma, lo voglio dire ai miei compagni della sinistra Pd, non si ricostruisce una prospettiva progressista in questo paese nel nome di Andreatta, padre dell’Ulivo ma anche della tesi del liberismo progressista. Ma non possiamo rinchiuderci in una ridotta di testimonianza. Il mondo progressista oggi non ha rappresentanza né approdo. Il referendum è la tappa per sconfiggere Renzi e aprire una nuova stagione politica che punta a costruire una nuova alleanza.
Nella sua sinistra lo slogan «mai più con il Pd» è piuttosto diffuso.
Detta così è una proposta statica e regressiva. Dobbiamo liberarci dalle catene che hanno ingessato la nostra discussione interna. La nuova strada la indicheremo a partire dal referendum. La vittoria del no archivierà questa stagione politica. Poi vedremo cosa succederà al Pd. Lì dentro ci sono ancora energie democratiche che sarebbe settario e sbagliato non considerare interlocutori in vista di un nuovo schieramento. Nessuna nostalgia, ripeto. La parola centrosinistra può essere segnata da politiche ormai da archiviare. Anche Prodi ormai lo dice. Ma il tema di come si ricostruisce un polo progressista, di una sinistra popolare e di governo, ce lo dobbiamo porre.
Anche perché M5S non ha alcuna intenzione di allearsi con voi, anche dopo aver vinto grazie a una parte dei vostri voti.
Infatti, dobbiamo avere una proposta che sappia anche assorbire la sinistra che c’è nei 5 stelle. Ma ora pensiamo al referendum. Dopo la vittoria del no non c’è il caos: c’è un accordo per una nuova leggere elettorale in pochi mesi e poi la parola torna ai cittadini.
Non tutti quelli che avete coalizzato nelle città la pensano come lei sul nuovo polo progressista.
Nelle città ci saranno luoghi di confronto, forse associazioni, utili a coinvolgere le energie della campagna elettorale. Sul punto discriminante del no al referendum siamo tutti d’accordo. Noi però abbiamo l’ambizione di costruire un partito e non una lista elettorale. Sinistra italiana è un campo largo, il congresso definirà una linea ma in cui convivranno anche posizioni diverse. Non un partito in cui chi perde se ne va o è emarginato.
Ecco, nel vostro dibattito si segnalano a volte toni da «dentro o fuori». Un congresso identifica maggioranze e minoranze. Le critiche che rivolgete a Renzi in fatto di democrazia interna valgono anche per voi?
Certo. Se replicassimo quel modello saremmo ridicoli. Sarebbe insensato costruire un partito leaderistico fondato sul pensiero unico in cui chi ha idee diverse non ha cittadinanza. Per questo dobbiamo fare in modo che il meccanismo congressuale favorisca il confronto fra le idee e non fra le persone e le cordate.