Gli spagnoli – con una percentuale di votanti che ha sfiorato il minimo storico del 70% – hanno scelto la continuità. Hanno premiato il Partito popolare (Pp) del premier uscente Mariano Rajoy che si conferma prima forza politica con il 33,03%. I socialisti sono inchiodati al 22,67%. Non c’è l’annunciato, dai sondaggi e dai primi exit poll di ieri sera, sorpasso di Podemos sul Psoe. Nonostante questa volta il partito di Pablo Iglesias si presentasse in alleanza con Izquierda unida, i consensi si sono fermati al 20,7%.

A fare da ago della bilancia restano i centristi di Ciudadanos con il 13,9%. La Spagna resta sulla carta ingovernabile come sei mesi fa.
Le sinistre, quella socialdemocratica del Psoe e quella radicale di Podemos, sono sconfitte entrambe dal voto. Si erano illuse di poter giocare un secondo tempo in condizioni migliori del primo, ma devono ora prendere atto che hanno perso quasi sicuramente la chance di formare insieme un governo. Se sei mesi fa avessero messo da parte i veti incrociati e avessero lavorato a un programma minimo, si potevano evitare le elezioni anticipate chiedendo aiuto anche ad alcune liste nazionaliste imprimendo una svolta alla politica spagnola. Ha invece prevalso la presunzione di Psoe e Podemos di avere più tempo a disposizione per consolidare i propri consensi e imporre all’altro le proprie condizioni. L’errore di presunzione è stato duramente punito. Il Psoe argina la perdita di consensi, mentre Podemos perde un milione di voti (non ha persuaso il rapporto con Izquierda unida che forse ha attenuato l’immagine di novità della forza politica nata come proiezione del movimento degli indignados). Ora è quasi impossibile formare “un governo di cambiamento”, come avevano sbandierato alla vigilia del voto puntando a decidere che il premier l’avrebbe fatto il leader del Psoe o di Podemos, a seconda di chi avrebbe prevalso in voti sull’altro.

L’assenza di governo degli ultimi sei mesi ha finito per rafforzare il Pp. I popolari, di fronte alla litigiosità delle sinistre, sono apparsi indispensabili per la governabilità della Spagna. Una mano in questa direzione è venuta pure dall’esito del referendum britannico sull’Europa. Il rischio instabilità è stato segnalato nei giorni scorsi da banche, finanza ed economia di Madrid. Le stesse forze che invocano adesso un bel governo di unità nazionale sull’esempio della Germania fondato sull’accordo popolari/socialisti, con la quasi certa esclusione di Rajoy dalla premiership cercando per sostituirlo un Mario Monti in salsa iberica che vada bene a poteri economici e sindacati. Questa prospettiva di unità nazionale non è però facile da raggiungere. Socialisti e popolari hanno collaborato solo a metà degli anni settanta, il periodo iniziale della transizione democratica: poi se le sono sempre suonate di santa ragione, restando forze antagoniste in un sistema politico bipolare. Nell’ultimo anno è finito il bipolarismo non solo in Italia ma pure in Spagna. Da qui l’impazzimento della politica spagnola che cerca nuovi equilibri.

E’ facile prevedere che il confronto divamperà nel Psoe. Il segretario Pedro Sanchez è accusato da un’ala del partito – quella forte e pesante dell’Andalusia, innanzitutto – di non aver voluto l’unità nazionale già sei mesi fa per inseguire l’inafferrabile Podemos. Le stesse critiche gli sono mosse da Felipe Gonzalez, leader storico del partito ed ex premier per quattro legislature, feroce avversario di un rapporto privilegiato con Podemos con cui però i socialisti governano a Madrid e Barcellona. Più duttile è invece l’altro ex premier José Luis Rodriguez Zapatero, che ha sempre sostenuto la segreteria di Sanchez. Il Psoe andrà probabilmente a un congresso straordinario per regolare i conti interni. Dire sì o no all’unità nazionale obbliga i socialisti al redde rationem. Lo stesso dovrà avvenire tra i popolari.

Interrogativi strategici riguardano ovviamente anche Podemos. Nelle prime dichiarazioni post voto, Iglesias ha teso la mano ai socialisti nel tentativo di non disperdere il patrimonio unitario comunque accumulato negli ultimi mesi. Il problema è che socialdemocratici e sinistra non possono eludere il tema dei reciproci rapporti, se vogliono costituire nel presente e nel futuro una alternativa di governo. Un conto è competere su contenuti e strategie contaminandosi a vicenda, un altro è ritenere impossibili rapporti unitari. La questione delle relazione tra le due componenti della sinistra torna perciò con prepotenza. E’ illusorio pensare che la sinistra moderata possa fare a meno di quella radicale. E viceversa. L’insegnamento spagnolo vale anche per la sinistra italiana.