Bisogna immaginarselo sul finire degli anni cinquanta Jerzy Skolimowski. Andava a lezione in giacca di pelle con lo scooter o al volante di una Warburg. Erano gli anni della cosiddetta «piccola stabilizzazione» gomulkiana. In quel periodo la Polonia era ancora vagamente euforica e benestante. Allora non era impossibile vedere degli scooter nel centro di Varsavia. Nel film di Andrzej Wajda Ingenui perversi (1960) sceneggiato dallo stesso Skolimowski, vediamo il suo amico di una vita Roman Polanski andare a zonzo in un cortile in sella a una Lambretta.

Allora il cineasta polacco non era abituato alle entrate trionfali ma era già adorato dalle ragazze. Il diploma con la Scuola del cinema di Lódz invece sarebbe arrivato di lì a poco. Poi sono arrivate le prime pellicole autodirette in patria abitate dal flâneur metropolitano, nonché alter-ego del regista Andrzej Leszczyc. Rysopis – Segni particolari nessuno (1964) e Walkover (1965) contenevano la promessa mai mantenuta di una nouvelle vague polacca. Qualche anno dopo con i ricavi del suo primo film realizzato all’estero Il vergine (1967) interpretato da Jean-Pierre Léaud, il regista polacco avrebbe comprato una Ford Mustang rivenduta poi al cantautore Czeslaw Niemen.

Da buon vincente erratico Skolimowski non ha mai avuto paura di cambiare. Soltanto una volta nella sua carriera è stato costretto a farlo. Tutta colpa (o quasi) del ritratto mostruoso di Stalin con quattro occhi mostrato nel censuratissimo Mani in alto! forse il più teatrale dei suoi film. Skolimowski lascia la Polonia per Londra e va a vivere in un appartamento a Kensington utilizzato anche come set nel microcosmo operaio polacco in transferta di Moonlighting (1982).

Dopo lo scacco di Thirty Door Key (1991) tratto dal Ferdydurke di Witold Gombrowicz, il cineasta polacco si trasferisce in California per gettarsi a capofitto nella pittura: diciassette anni vissuti da eremita tra tele e colori nella sua villa-studio a Santa Monica. E poi l’inaspettato ritorno in Polonia e al cinema con il dramma voyeuristico Four Nights with Anna (2008), seguito da Essential Killing (2010) con la straordinaria fuga di Vincent Gallo tra le nevi della Masuria. E proprio lì, a qualche chilometro di distanza dal tristemente note black site della CIA di Stare Kiejkuty che il regista ha scelto di vivere.

Abbiamo incontrato il cineasta polacco durante la nona edizione della kermesse Dwa Brzegi nella cittadina di Kazimierz Dolny, perla del cosiddetto «rinascimento lublinese» adagiata sulla bassa Vistola e mecca locale della pittura en plein air da oltre un secolo. Un festival che si è ingentilito molto negli ultimi anni, almeno a detta dell’ebraista Karolina Ozóg che segue la manifestazione sin dagli esordi: «la birra scorreva a fiumi durante i concerti di piazza mentre gli studenti in tenda facevano la fila per vedere l’ultimo documentario di Michal Moore».

Abbiamo parlato con Skolimowski della sua misteriosa pellicola 11 Minutes cha sarà in concorso quest’anno a Venezia, della sua lunga pausa dal cinema ma anche di musica e della sua tecnica pittorica. Il regista risponde sereno ma è consapevole che non tutti se la passano così bene.

Il pensiero va soprattutto all’amico Roman, ora a Cracovia, sul quale pende la spada di Damocle della giustizia americana mentre un tribunale polacco ne sta esaminando la richiesta di estradizione.

Tra cinepresa e musica si crea un rapporto di scambio. In che modo ciò ha influenzato il suo modo di fare cinema?

Ma quando ho visto Krzysztof Komeda al festival di jazz di Sopot è stata per me una folgorazione. Ho avuto la fortuna di averlo per i miei primi film in Polonia. Una volta Komeda mi ha spedito dagli Stati Uniti il vinile della colonna sonora di Rosemary’s Baby pochi mesi prima di andarsene per uno stupido incidente. Ricordo la sua dedica scritta nel nostro gergo segreto con alcuni consigli per l’uso del disco. Con Stanley Myers poi c’era una intesa pazzesca.

All’estero sono arrivate altre frequentazioni importanti.

Tornando alla domanda di prima non so dire se la musica che ascoltavo abbia avuto un impatto sui miei film. Anch’io ho provato a suonare la batteria ma ho capito subito che non faceva per me sebbene Jimmy Hendrix fosse il mio vicino di casa a Londra. Sono stato anche capace di far addormentare David Bowie quando gli ho proposto invano di realizzare la colonna sonora di L’australiano (1978). Attualmente sono molto soddisfatto della collaborazione con Pawel Mykietyn iniziata con Essential Killing.

Diciassette anni senza cinema possono sembrare un’eternità agli occhi degli altri. Ma è stato davvero necessario per Lei fare questo pit-stop?

Dopo aver rivisto Thirty Door Key (1991) ho capito di aver maltratto Gombrowicz girando un pudding indigesto co-prodotto alla meno peggio. Certo, non è stato l’unico film del quale non vado particolarmente fiero. Ero deluso ma non ho mai perso la fiducia nei miei mezzi. Poi è arrivata la pittura in California nella quale ho messo corpo e anima in attesa di un progetto interessante.

Difficile in quel periodo trovare qualcosa su cui valesse la pena lavorare?

Avevamo già cominciato a cucire i costumi per adattare sul grande schermo il romanzo di Susan Sontag In America. Ma i produttori hanno annunciato tagli su tagli e si sono tirati indietro sul più bello. Era stato sedotto e abbandonato. Intanto i miei dipinti continuavano a vendere bene anche all’estero. Non avevo nessuna fretta di tornare a lavorare dietro la macchina da presa

Lei ha sempre prediletto le tele di grande formato. Una pittura che soltanto a volte contiene un residuo figurativo e fa pensare all’action painting o perfino al Gruppo Gutai.

Nell’action painting la casualità gioca un ruolo importante. Anche per me la fisicità e importante. Eppure tutto nasce da gesti controllati. Spesso lasciavo colare i colori da una tazza su una tela posta in orizzontale. Ma mantenevo una distanza costante mentre ero abbassato con i piedi ben distanti l’uno dall’altro.

Sembra quasi che la voglia di raccontare se stesso attraverso il cinema sia confluita nella pittura in quel periodo.

I miei film degli esordi contengono qualcosa di me così come il personaggio di Andrzej Leszczyc interpretato da me stesso. Ma da qui a dire che si tratta di opere autobiografiche ce ne passa. Lo stesso vale per la pittura. Prendi la serie di autoritratti con bandana. Non ho mai sfoggiato questo tipo di copricapo. La cosa più simile che io abbia mai indossato era la fascia da tennis quando giocavo sui campi. E questo quello che intendo quando dico che si deve imparare a trasfigurarsi nell’arte.

Cosa ci può dire in più del suo nuovo film in concorso al Lido?

Stiamo facendo una corsa contro il tempo per completare gli effetti speciali in tempo per Venezia. Alvernia Studios responsabile della post-produzione ha attuato pesanti tagli al personale in primavera. Tutto da rifare dunque. Roman che ha visto il primo montaggio a porte chiuse ne è rimasto entusiasta. C’è anche Richard Dormer nel cast conosciuto ai più per Il Trono di Spade. Anche se io ho sinceramente non sono un profondo conoscitore delle serie televisive del momento.

In base alle poche informazioni divulgate dovrebbe trattarsi di un thriller polifonico che potrebbe far pensare al primo Iñárritu.

Posso soltanto dire che 11 Minutes non avrà niente in comune con Essential Killing. Quando il festival mi ha chiesto la sinossi della pellicola per il catalogo mi sono limitato a fornirne una descrizione vagamente poetica di quello che accadrà ai personaggi a 11 minuti dalla catastrofe: «l’avvistamento enigmatico di una macchia scura sfuggente nel cielo e la tragica catena di eventi che ne suggellerà il destino». Al momento non posso aggiungere altro.