Come i 49 migranti soffocati nella stiva del barcone sul quale viaggiavano il 17 agosto. Anche loro chiusi nella pancia della carretta del mare con cui stavano cercando di raggiungere l’Italia e che invece è diventata la loro tomba. Quando l’equipaggio della nave militare svedese Poseidon ha raggiunto il barcone blu in difficoltà a 40 milglia dalle coste libiche e ha tratto in salvo i 400 migranti che si trovavano a bordo, sono stati proprio i superstiti a indicare ai militari di cercare nella stiva. Dentro, stipati uno sull’altro c’erano i corpi ormai senza più vita di 50 migranti, morti soffocati dalle esalazioni del motore.
L’ennesima strage del mare. L’ennesima tragedia consumata a bordo di una caretta sulla quale i più poveri, quelli che possono permettersi di pagare la traversata del canale di Sicilia ma non un posto sul ponte dove è possibile respirare, né un giubbotto di salvataggio in caso di naufragio, vengono ammassati dagli scafisti. Poco dopo il ritrovamento dei 50 cadaveri, la Guardia costiera è intervenuta in soccorso di un gommone in difficoltà a bordo del quale sono stati trovati i cadaveri di tre donne.
Adesso sarà come sempre la magistratura ad accertare le cause della morte e cosa è successo a bordo del barcone. Probabilmente le testimonianze di chi è sopravvissuto racconteranno nuove storie di violenze messe in atto dagli scafisti per mantenere l’ordine a bordo e impedire soprattutto che quani erano rinchiusi nella stiva potessero uscire all’aria aperta. Proprio come è successo ai 49 migranti originari di Bangladesh, Pakistan ma anche subsahariani trovati morti il 17 agosto. Dai racconti fatti dai compagni di viaggio sopravvissti al viaggio – libici, siriani e del Maghreb – ai magistrati della procura Dda di Catania che conducono le indagini, a bordo si sarebbero verificate scene di un’estrema violenza: «Queli bloccati nella stiva non potevano salire sul ponte esterno», hanno raccontato. Per costringere chi stava sotto a obbedire l’equipaggio «faceva ricorso alla violenza, con calci, pugni e colpi di cinghia» anche «se solo provavano a uscire la testa dai boccaporti».
Impossibile in queste condizioni resistere a lungo, con l’aria che lentamente diminuiva fino a mancare del tutto, pressati in uno spazio di 6 metri per 4 alto appena 1 metro e 20. Grazie alle testimonianze raccolte gli inquirenti sono potuti arrivare all’identificazione degli scafisti. In manette sono così finiti un libico di 20 anni, Ayooub Harboob, ritenuto il comandante del peschereccio, Tarek Laamami, 19, i libici Mohames Assayd e Alì Farah Ahmad, entrambi di 18 anni, J. M., 16 anni, siriano, Mustapha Said, 23 anni, marochhino e Abd Arahman Abd Al Monsiff, libiso, 18 anni.
La stessa fine, morti soffocati nella stiva, stavano per farla anche i 200 dei 350 migranti salvati nei giorni scorsi dalla Guardia costiera e trasportati nel porto di Pozzallo, nel ragusano. «Ci hanno chiusi nella stiva e quando abbio capito che potevamo morire soffocati abbiamo sfondato la botola per poter prendere aria e respirare,», hanno raccontato a loro volta. Rabbia e disperazione gli hanno salvato la vita.
Una violenza che non si ferma davanti a niente e nessuno. Neanche davanti ai bambini. Ieri nel porto di Catania ne sono sbarcati alcune decine . Insieme ad altri 218 migranti si trovavano a bordo di un barcone soccorso dalla nave della Marina militare croata Andrija Mohorovic, impegnata nel dispositivo Frontex. Agli operatori di Save the Children i piccoli hanno raccontato di aver pagato gli scafisti per poter uscire dalla stiva e respirare. Sull’imbarcazione è stato trovato anche il corpo di un ventenne sudanese morto per cause naturali.
Tragedie che non fermano gli sbarchi e tantomeno a volontà dei profughi di raggiungere l’Europa. Ieri sono stati più di 2.000 quelli soccorsi nel Canale di Sicilia. L’ultimo intervento i serata, quando una nave della Guardia costiera islandese ha tratto in salvo un gommone con 500 persone a bordo e la nave Grecale ha raggiunto e salvato un altro gruppo numeroso di migranti.