Il tema della condizione precaria è oramai centrale nell’analisi economica e sociale. Non solo in Europa, ma in ogni angolo del mondo.
Sul tema, il centro di ricerche Crix che unisce diverse università europee e americane (da Parigi a Amsterdam e Utrecht in Europa, dal North Carolina al Michigan negli Usa) già da qualche anno svolge una riflessione, con particolare riferimento anche al caso italiano.

Il 6-7 dicembre 2012 all’Università di Paris Ouest – Nanterre, nell’ambito del progetto «Precarity and Post-autonomia: the Global Heritage», si è svolto un convegno dal titolo «Avere il coraggio dell’incertezza: le culture del precariato». Alcune relazioni di quel convegno sono oggi disponibili in italiano grazie al lavoro di Silvia Contarini e Luca Marsi e all’editore Ombre Corte nel testo collettaneo Precariato. Forma e critica della condizione precaria (pp. 166, euro 14) . Un precedente volume, tratto dal summenzionato progetto di ricerca, era già stato pubblicato, quasi un anno fa, sempre da Ombre Corte, a cura di Silvia Contarini, Monica Jansen e Stefano Ricciardi (Le culture della precarietà. Pensiero, azione, narrazione) velocemente recensito su questo giornale («il manifesto», 30 aprile 2015) e di cui, alla luce di questa nuova opera, se ne può meglio comprendere la portata.

Non c’è spazio per un’analisi puntuale dei numerosi contributi di questo nuovo testo, che spaziano da Pierre Laval a Cingolani, da Stefano Chicchi a Judith Revel, da Esteva a Allegri (solo per citare gli autori più noti al pubblico italiano) in un ottica transdisciplinare. Cercheremo così, nel presentarlo al lettore, di evidenziare alcune linee di lettura comuni e alcune dicotomie sulle quali la matassa delle riflessioni si dipana.

Un primo filo conduttore è da ravvisarsi nel rapporto tra condizione precaria e attività culturale-artistica e ludica (Cingolani, Jeanpierre e Mayaud, Marsi, Cicchi e Turrini). Il tema viene analizzato senza cadere nella tentazione di un’«esteticizzazione» della precarietà, all’interno della dicotomia (come ci ricorda Revel) tra assoggettamento, da un lato, e liberazione, all’altro.

Una condizione strutturale

Il secondo filone di lettura è la definizione di precarietà, una volta assodato che la precarietà stessa è condizione strutturale che innerva tutta la società e la vita e degli individui, nonché lo stesso lavoro salariato. Ogni contributo inizia proprio con l’affrontare il tema della sua definizione: ora come «incertezza di vita», ora come soggettività «ambivalente», ora come percezione di uno stato di malessere. Qui sta un punto di estremo interesse: nonostante il tema della precarietà in Italia abbia oramai una storia lunga, è ancora abbastanza diffusa nella sinistra radicale (alla sinistra del Pd) l’idea che la condizione precaria sia comunque ancillare a quella del lavoro stabile e, di conseguenza, debba essere affrontata in quanto condizione atipica da superare e non come condizione «normale», oramai istituzionalizzata – in Italia – dal Jobs Act. E, di conseguenza, si pone il nodo politico di come affrontare di petto tale normalità, analizzando le contraddizioni e l‘instabilità che genera a vari livelli, a partire dell’istituzione di un reddito di base il più possibile incondizionato.

A questo riguardo, desta qualche perplessità il fatto che tale questione (continuità di reddito come antidoto all’incertezza e all’instabilità precaria) venga raramente accennata. Il motivo non è dovuto alla non considerazione dell’importanza di dotarsi di un welfare adeguato alle nuove condizioni lavorative, un welfare di tipo nuovo e non semplice esito di una riforma del welfare del passato (oggi sempre più workfare), in altre parole un welfare del comune (commonfare), ma al fatto che le soggettività precarie indagate in questi saggi, proprio per la loro natura «artistica-culturale», sono ancora troppo intessute di una ideologia meritocratica e individuale che le porta a prediligere soluzioni interne alla loro condizione di precarietà (di lavoro e di vita) piuttosto che interventi predeterminati in grado di garantire quelle condizioni minime per operare poi un diritto di scelta.
Da questo punto di vista – come sottolineato ad esempio da Laval -, la governance ideologica neoliberale risulta, nonostante gli esiti fallimentari ai tempi della crisi, ancora oggi assai pervasiva. L’elemento di autoreferenzialità, seppur messo in discussione, risulta ancora molto forte nel definire comportamenti auto-interessati e quindi soluzioni individuali.

Ecco allora che la condizioni di precarietà può diventare una condizione ambivalente e ambigua, questa sì tesa ad un processo di esteticizzazione quando è vissuta nella propria individualità.

L’estetica è la fenomenologia di una condizione soggettiva tanto quanto può essere soggettiva la percezione della propria precarietà.
Ecco allora che si pone il terzo livello di analisi: quello di una possibile ricomposizione delle frammentate e individualizzate soggettività precarie. Il piano sovrastrutturale e strutturale si fondono alla ricerca di una possibile autonomia del «soggetto» che possa diventare cardine di autonomia «dal» politico. E tale ricerca di autonomia pone immediatamente i tema delle rivendicazioni politiche e socio-economiche.

Nel suo contributo, Luca Marsi (uno dei curatori del libro) si pone la seguente domanda: «Perché non vi è una reazione violenta da parte di chi subisce la precarietà, potendo tale reazione mettere in discussione e in pericolo il sistema capitalistico stesso?». La risposta è duplice. De un lato, la precarietà è frutto della violenza del capitalismo finanziarizzato e, se ciò potrebbe rendere legittimo il ricorso alla violenza, depotenzia tuttavia la capacità di reazione, dall’altro, assistiamo ad una normalizzazione della precarietà, tramite un sapiente processo di sussunzione «vitale» che attanaglia i soggetti precari sino a renderli inoffensivi.

Risposte inefficaci

Le nuove forme di lotta dell’intellettualità precaria assumono così più connotati di testimonianza formale senza essere in grado di intaccare la natura di sfruttamento insito nello stesso rapporto precario, con l’effetto di risultare inefficaci, troppo giocate sul piano della comunicazione, anche creativa, ma tutto sommato sovra-strutturale.

Ecco allora che, per combattere «l’infelicità del precario» e la natura ambivalente della flessibilità, è necessario di dotarsi di strumenti autonomi in grado di garantire un’autonomia d’azione che favorisca il proprio riconoscimento come soggetto politico, senza cercare scorciatoie nel campo della verticalità e del riconoscimento della propria rappresentanza.