Cosa c’è di più «americano» della California? Luogo mitico assolato e opulento, ma anche intellettuale e alternativo, questo stato rappresenta nell’immaginario una sorta di metonimia degli Stati uniti, anche perché Hollywood ha sfruttato ogni angolo del suo variegato paesaggio e della sua complessità etnica. In realtà la California faceva parte del Messico e fu ceduta (o meglio annessa con la forza) agli Stati uniti dopo la guerra messicana-statunitense del 1848, per diventare stato nel 1850. Nel frattempo la memoria corta di chi fa la storia ha trasformato i messicani in «illegali». Alle Giornate del cinema muto tracce delle complesse vicende di questo stato sono disseminate, oltre che nei western delle origini, in tre film- Ramona (Edwin Carewe, in parte amerindio, 1928) protagonisti una splendida Dolores Del Rio e Warner Baxter, Il segno di Zorro (Fred Niblo, 1920), primo film in costume, ovvero di cappa e spada, con Douglas Fairbanks e Wolf Song (Victor Fleming, 1929) con Lupe Velez e un Gary Cooper che trapassa lo schermo con i suoi occhi azzurri.

«Tracce» di storia perché proprio questi film hanno contribuito a costruire la mitologia della California come luogo di avventura e passioni, piuttosto che dello sterminio degli Amerindi e di violente tensioni socio-razziali, e hanno reso epico lo sfruttamento del territorio, dall’allevamento alla corsa all’oro – situazioni che forniscono infatti intrecci ricchi di tensione e ambientazioni in esterni da cartolina. Ramona è uno dei più famosi romanzi dell’Ottocento, scritto da Helen Hunt Jackson nel 1884, adattato da Griffith già nel 1910 e ripreso da allora in altri 4 film. La popolarità di questo libro «pro-indiano», che voleva essere per i nativi quello che era stato La capanna dello zio Tom per i neri, ebbe l’effetto paradossale di trasformare le location in cui si svolgeva la vicenda, la California del Sud, nel primo caso di cineturismo di massa in quanto ci arrivava il treno e la rievocazione annuale in costume dedicata a Ramona è rimasta una delle feste più popolari della California. Al di là di questa popolarità comunque, il messaggio pro-Amerindi sembra essere rimasto tra le pagine del libro ed emerge appena nel film. Ambientato subito dopo la Cessione-Annessione del 1848, il film ha per protagonista Ramona (Dolores Del Rio), figlia di un ranchero e di una nativa, adottata da una bigotta «bianca» che ne teme la natura meticcia e che la caccia di casa quando si innamora di un Amerindio dall’improbabile nome di Alessandro (Baxter), venuto al ranch con la sua tribù,per tosare le pecore.

Tutta storia questa, perché in effetti all’epoca i proprietari dei ranch – per lo più di origine spagnola- convivevano, ma a debita distanza, con i nativi, che erano stati «evangelizzati» dai frati delle Mission; entrambi i gruppi erano in contrasto con gli statunitensi, che una didascalia ricorda, proprio allora avevano cominciato la corsa all’oro e la conquista dei pueblos. Infatti la fuga d’amore di Ramona si conclude tragicamente perché prima una banda di coloni WASP assalta il villaggio indiano, bruciando le case e depredando i nativi della terra e del bestiame; nel sottofinale un gringo che fa razzia di cavalli uccide Alessandro che per sbaglio gliene ha rubato uno. Nel finale però, Ramona torna al ranch e sposa l’erede della tenuta, da sempre innamorato di lei, recuperando il suo posto in società e abbandonando la sua metà amerindia. Dietro la trama melodrammatica e il finale conciliatorio la Storia rimane ma si percepisce a stento, perché casting e messa in scena mistificano la questione razziale. Dolores Del Rio era sì di cittadinanza messicana, ma non soffriva dello stigma razziale relativo, perché era nata a Durango da una famiglia di origine spagnola ed aristocratica, trasferitasi in Messico per disastri finanziari, per cui la ragazza era diventata una reginetta nel bel mondo di Città del Messico.

13VISSLUPEVELEZGARYCOOPER034-lupe-velez-theredlist

Ramona quindi è interpretata da un’erede dei rancheros, ed illuminata in modo da rendere la sua pelle bianca ancora più chiara e luminosa, per permetterle di far coppia con l’americanissimo Baxter, abbronzato e imparruccato all’uopo, ovvero travestito da indiano. A Hollywood infatti, ruoli da protagonista di una razza «scomoda» – e quella degli Amerindi era scomoda almeno come quella nera – non vengono interpretati da performer appartenenti alla stessa, ma da bianchi colorati di rosso o nero o giallo, oppure in rari casi da star «di classe» come la Del Rio o come Lupe Velez, anche lei figlia di un ufficiale e di incarnato molto chiaro. Il ruolo della Velez nell’intenso Wolf Song rimanda sotto traccia alla burrascosa relazione che ebbe all’epoca con Gary Cooper. In trasparenza una fase della storia della California, con i rancheros spagnoli ostili ai primi cacciatori americani, che trattavano in pelli di castoro lontra e orso, come i rozzi uomini del West del film, che preferiscono dormire sotto le stelle che metter su casa con le belle ragazze locali. Il giovane cacciatore interpretato da Cooper presto abbandona la sposina messicana per amore della sua libertà ma è così preso dalla sua passione che torna da lei, strisciando nel deserto, ferito degli indiani -quelli tradizionali a cavallo e con le piume in testa – come nel mitico finale di Duello al sole.

Questo Zorro con Fairbanks è davvero gustoso nel modo in cui rappresenta il debosciato aristocratico Don Diego sempre vestito di bianco che si trasforma in uno Zorro tutto in nero, cavallo incluso. In realtà questa versione si avvicina più di altre alla Storia in quanto mostra come Zorro inciti alla rivolta la propria classe sociale – i caballeros di origine spagnola, alleati con i nativi contro il governatore ovvero cita la «rivolta di Monterey» del 1831. Dal punto di vista narrativo questo Zorro è un difensore dei diritti dei nativi, maltrattati dall’esercito, corrotto e prepotente, del governatore, ma si trasforma in un «all American hero», essendo interpretato da Fairbanks, il divo per eccellenza del cinema americano d’azione. Col casting si creano delle tensioni tra personaggio e interprete che Hollywood non sottovalutava, appropriandosi di questa mitologia popolare, incarnata dai suoi attori WASP e relegando i veri californiani – nativi e messicani – nei ruoli di grasse governanti, pavidi poveracci coperti dal sombrero e pellerossa in campo lungo.

Un altro film d’azione che gioca col casting, creando un inatteso cosmopolitismo è il colossal (anche nella durata: quattro ore) Helena di Manfred Noa (1924), che racconta la guerra di Troia dal rapimento fino alla distruzione della città, utilizzando attori russi, tedeschi, cecoslovacchi e italiani. Il film non parteggia per i greci ma piuttosto per gli sconfitti – i Troiani – raccontando la vicenda con una sensibilità che risente della memoria recente della devastante sconfitta nella prima guerra mondiale, nelle immagini di Troia saccheggiata e distrutta, dei campi di battaglia coperti di cadaveri e delle le donne che piangono gli eroi morti in una guerra inutile.