«Més que un club». È il motto inconfondibile, che definisce l’identità del Football Club Barcelona. Più che una semplice squadra di calcio. Un concetto che addirittura supera, in termini di orgoglio, il fatto che questa squadra sia universalmente riconosciuta non solo come la più forte del mondo ma anche di tutti i tempi. Essere «Més que un club», laddove la parola più (Més) è rigorosamente scritta nella lingua locale (e non in spagnolo), vuol dire essere catalani, nel sangue. E catalani nel sangue, significa, a sua volta, essere aperti al mondo ma, allo stesso tempo, non riconoscere la sovranità di Madrid. Quante volte si è sentito dire che il calcio (e, talvolta, lo sport in generale) «è lo specchio della società»? Mai come a Barcellona questo concetto è più veritiero. Barcellona è una realtà da un milione e mezzo di abitanti fantasticamente multietnica e multiculturale, capace di rimbalzarti tra Europa ed Africa in giro per La Rambla, oppure, non appena si svolta in direzione Sant Antoni, peluquerias e carnisserìas islamiche. Da queste parti, nel barrio di El Raval, nacque e crebbe Manuel Vázquez Montalbán, autentica divinità letteraria di Barcellona, la cui abitazione d’infanzia è facilmente apprezzabile, con tanto di targa, lungo Carrer Botella – a pochi passi da Plaça Pedrò – nello stesso edificio che, al piano terra, ospita l’Arume, un ristorante tipico. Il meltin’ pot non è solo una questione riguardante le varie Londra o New York: per esempio, un pakistano che vive qui è, prima di tutto, un abitante di Barcellona. È un catalano. Ed è un concetto talmente semplice che non ha bisogno di spiegazione nella metropoli mediterranea. Allo stesso tempo, la Spagna, il re, il governo Rajoy, le tasse a Madrid, sono considerati elementi-zavorra da cui dissociarsi, distinguersi, talvolta «castigare» con le eccellenze di qui. Tra parchi, università, ospedali all’avanguardia in uno scenario artistico unico di cui Antoni Gaudì è stato leader supremo. E, per l’appunto, l’Fc Barça, che mescola giocatori catalani e spagnoli alle star internazionali più forti di tutto il mondo, in un cocktail magico di talento al servizio dell’indipendenza. Che si farà? Sono 18 i mesi che ci separano dalla risposta. Le larghe intese tra Artur Mas – ridotto nel tempo a macchietta e più volte accusato di corruzione – e Carles Puigdemont, il giornalista-filologo sindaco di Girona (la seconda città più grande della Catalogna) sono state messe nero su bianco proprio al triplice fischio del match Barcellona-Granada di sabato scorso.

C’è perplessità ma anche la consapevolezza di dover mettere da parte le proprie simpatie politiche all’interno della Generalitat, per poter guadare il pantano e andare avanti verso la separazione da Madrid. Già, la politica catalana: composita e molto più complessa di quanto si possa pensare: fatta di sindacati e sfumature, dichiarazioni eclatanti e posizioni mediane. E allora, come si fa? Intanto la voglia di «Indipendenza» la si urla a squarciagola allo stadio, ogni qual volta scatti il minuto 17.14 tirando fuori le bandiere catalane (che tempestano anche i balconi cittadini): «Lo si fa ad ogni partita, nel primo e secondo tempo – spiega il giornalista catalano di Goal.com España Ignasi Olva Gispert tra una magia di Messi e l’altra -.

Ci si riferisce alla perdita dell’indipendenza catalana avvenuta nel 1714 per mano dei Borboni dopo una strenua resistenza del popolo di Barcellona e dintorni fino all’11 settembre di quell’anno». Intanto in campo c’è colui che qualche giorno dopo verrà premiato per l’ennesima volta col pallone d’oro e che si diletta con la trentatreesima tripletta della sua carriera, c’è Neymar Jr – che dribbla come se non ci fosse un domani, c’è il regista croato Ivan Rakitic – che gioca come il nostro miglior Andrea Pirlo e c’è il brasiliano Dani Alves, tribuno della plebe per la causa catalana in tv. Quella tv pubblica che non perde occasione di prendere in giro Barcellona e la lingua catalana, considerata alla stregua del polacco. Sono giorni pieni di sussulti e anche livore: una settimana prima è andato in scena il derby cittadino (0-0, in «trasferta») con l’Espanyol, la seconda ed enigmatica squadra di Barcellona, migrato dallo stadio Olimpico e prima ancora dal Sarrià, teatro delle imprese italiane contro Brasile e Argentina nel Mundial ’82 e demolito nel 1997 e che ora è un centro commerciale eretto dall’impresa di costruzioni Nunez Y Navarro del presidente del Barça Josep Maria Bartomeu-

Ora, la squadra allenata dal rumeno Constanti Galca, gioca dalle parti dell’aeroporto, fuori dal costoso perimetro cittadino, al «Cornellà-El Prat», chiamato così in onore dei due piccoli comuni ospitanti: «Che impatto ha l’Espanyol su Barcellona? Direi molto basso – sostiene Oliva Gispert -, basti pensare che la seconda squadra più tifata di Barcellona è il Real Madrid». Ma com’è possibile, ci si chiede? «C’è anche chi, calcisticamente, si vuole distinguere e non vuole necessariamente tifare Barça. Ma sostenere l’Espanyol è complicato». Nonostante da qualche anno la società biancoblù porti effigie giallorossoblù della bandiera catalana un po’ ovunque.

Il club è stato fondato nel 1900 (un anno dopo il Barça) da studenti universitari per far giocare solo calciatori spagnoli, mentre fu lo svizzero Gamper a iniziare la tradizione azulgrana: «All’epoca del franchismo veniva proibita la lingua catalana e, sempre da Madrid, perorata la causa dell’Espanyol. Chi sono i tifosi? Principalmente figli di vecchi sostenitori o abitanti di Cornellà e di El Prat. Ma, ovviamente, anche barcellonesi e indipendentisti puri: quei fatti, fortunatamente sono lontani. E, altrettanto fortunatamente, ognuno ama la squadra che si sente di amare». E se nel 2017 sarà veramente Indipendenza? «Barcellona-Real Madrid continueranno a giocare nello stesso campionato – chiude Ignasi con una risata sarcastica – Sono troppi gli interessi economici in ballo». Quattro a zero, la partita contro il povero Granada finisce. il lato fronte tribuna stampa si svuota e ricomincia a campeggiare, sui seggiolini, la mitica scritta «Mès que un club».

 

 

Il Camp Nou

Ai piedi di Park Güell sventolano le bandiere rossonere del sindacato dei lavoratori, il Cnt (Confederació Nacional del Treball), tradizionale istituzione della Barcellona popolare, molto impegnata nel discorso indipendentistico. Ma, come sottolineato, la città abbraccia le esigenze di tutti. Anche degli italiani, che da queste parti sono in affari, fanno i camerieri universitari, studiano e si pagano gli studi con le possibilità offerte dalle varie eccellenze locali. Proprio al Camp Nou, al cancello 9, un ragazzo napoletano si prodiga nello stampare magliette e immagini ufficiali ai turisti giapponesi, che si siedono dando le spalle ad una parete verde e, usando la cara vecchia tecnica del Chromakey (quella, per intendersi, degli inviati di 90° Minuto), scattano foto (montaggi) che li ritraggono al centro del campo in uno stadio gremito. I nipponici e i turisti di altre nazionalità costituiscono una fetta importante di pubblico durante le partite casalinghe di campionato del Barcellona: d’altra parte, c’è da riempire un “bestione” da 99mila 354 posti. E’ il catino più grande del continente, anche più di Wembley, che conta 90mila seggiolini. Nel complesso che circonda lo stadio è una processione di turisti, che si apprestano a vedere il match di turno. Prenotano il loro biglietto sui vari siti istituzionali del turismo a Barcellona: già perché il club azulgrana viene considerato alla stregua di un monumento o di un museo da visitare. Qualcuno di loro conoscerà a malapena Messi, Suarez e Neymar. E nessun altro. Ma che importa? L’avversario è il Granada (società satellite dell’Udinese dei Pozzo), che – come tante altre squadre di medio-bassa classifica della Liga spagnola – non vale un quarto o quinto posto della Serie A italiana. E quindi gol, spettacolo e divertimento, sono garantiti…

La storia di Sergi Guardiola

Sergi Guardiola. No, nessuna parentela con il ben più conosciuto e quotato Pep, ex tecnico del Barcellona. Si tratta di un centrocampista maiorchino di 24 anni divenuto un vero e proprio caso nel club azulgrana: ha firmato un contratto con il club e, dopo un giorno, è stato licenziato. E’ successo a cavallo tra il 28 e il 29 dicembre: Sergi si appresta a firmare un accordo che lo legherà al Barcellona B, club che – secondo il modello del calcio spagnolo – serve a lanciare i giovani talenti del vivaio. Sergi è “già” 24enne, ha già girato diverse formazioni di secondo piano e farà parte di quel gruppetto di calciatori “di contorno”, utili a fare da chiocchia a chi, invece, un giorno, sfonderà nel calcio della Liga e in quello internazionale. Ma poche ore dopo aver siglato il contratto, i social network gli si rivoltano contro: qualcuno riesuma un suo vecchio tweet (datato 2013) in cui insulta la comunità catalana (scrisse “Hala Madrid, puta Cataluña”, di facile traduzione), che ha fatto letteralmente infuriare dirigenti e tifosi, i quali hanno subito rotto i rapporti – professionali e affettivi – con lui. Sergi è giustificato dicendo che si trattò dello scherzo di un amico ma nessuno gli ha creduto. Non gli è andata così male perché, proprio durante il match di sabato scorso, è stato messo sotto contratto (caso del destino) dallo stesso Granada. Anche con gli andalusi, però, si diletterà nella seconda formazione di Tercera Division. E il Barça lo vedrà col binocolo. Succede anche questo in “Més que un club”…