Arriva in sala, finalmente, Monte, il nuovo film di Amir Naderi, il primo del regista iraniano che da molti anni, da quando ha lasciato l’Iran, nell’89, vive a New York, girato nel nostro Paese. Lui lo definisce: «Un film sulla vita e sull’Italia che ogni giorno cambia» .
«Ho girato qui perché volevo essere vicino alla vostra tradizione cinematografica… Ci ho provato tante volte e adesso è successo. Tutti perseguono un obiettivo e non bisogna mai rinunciare una volta che si è raggiunto ciò che si desidera si deve condividerlo con gli altri…» aveva detto presentandolo alla Mostra del Cinema di Venezia.

Ma tutti i suoi film, dagli anni iraniani del Corridore fino ai più recenti americani come Marathon o Vegas (in concorso a Venezia nel 2008) nascono da un’ossessione che diventa il paesaggio interiore, sonoro e visivo del suo magnifico cinema. L’ossessione di un gesto esistenziale che si ripete testardo e conduce i personaggi verso un altrove.

E una sfida è anche Monte (produttori Citrullo International e Zivago Media per la parte italiana) a cominciare dalla sua realizzazione, un set a 2500 metri di altezza sulle montagne dell’Alto Adige e in Friuli che rende vivi e plasticamente «veri» la fatica, la battaglia tra l’uomo e la natura che lo sovrasta. Siamo in un medioevo remoto e insieme attuale, Agostino (Andrea Sartoretti) è un contadino condannato da una terra sterile dove non batte mai il sole: le piante non crescono, gli animali e gli umani non riescono a vivere.

La sua piccola comunità è sterminata dalla fame e dalla miseria, lui e la moglie Nina (Claudia Potenza) hanno perduto la figlioletta, gli è rimasto il ragazzo, Giovanni, silenzioso e pieno di dolore. Gli altri se ne vanno, stanchi di seppellire morti, di piangere e di essere guardati come stregoni dagli abitanti del villaggio che li pensano causa di disgrazie. Agostino però non vuole cedere, quella è la terra dei suoi padri, non si rassegna a abbandonarla: vuole lottare, conquistare a costo di impiegarci l’intera esistenza quel sole che la natura gli ha negato spaccando da solo, con due martelli che gli rompono le mani, la roccia della montagna.

L’uomo e la natura. Ma se nel cinema contemporaneo la presenza del mondo «animale» è quasi un archetipo fiabesco, la natura di Naderi è ottocentesca, antagonista, metafora di una lotta anche di classe contro l’oppressione che le credenze e gli opportunismi fanno passare per maledizione.
Non c’è un dio o e nemmeno un miracolo nella battaglia di Agostino, figura che è un atto d’amore per il cinema rosselliniano. Esiste solo la sua dimensione di uomo che attraversa il tempo e la sua epoca cercando questa luce fino alla commozione.

E poco importa se per mantenere viva la sua utopia, che è anche una dichiarazione politica e poetica di cinema, questo personaggio e la sua compagna, anche lei determinata nell’essergli accanto, possono «sacrificare» il tempo di una vita, la loro. Perché non si tratta di «sacrificio» ma di resistenza, di un allenamento che mette in gioco ogni centimetro del cuore e del corpo. 

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Le immagini di Naderi guardano alla pittura di quel tempo e insieme racchiudono nei chiaroscuri plastici la profondità universale della realtà umana. La donna, l’uomo e il ragazzo incarnano il respiro di una storia umana e delle sue contraddizioni e violenze: razzismo, persecuzione, sopraffazione, condanna di una diversità che il «buon senso» della comunità non tollera.
Nel cono d’ombra Agostino, Nina e gli altri sono maledetti e non possono trovare uno spazio nella società se non si uniformano alle sue regole. Ma la sfida è proprio questa: provocare un cambiamento, sbriciolare quelle regole – come le pietre – seguendo il loro desiderio.
C’è qualcosa di maestoso nel cinema di Naderi sia che si aggiri con un budget indipendente nella metropolitana newyorchese che filmi sulle cime impervie dei monti, che non riguarda soltanto gli estremi a cui spinge le sue immagini e i corpi che le abitano.

È quel racconto della realtà che srotola film dopo film prospettive inconsuete ma soprattutto la tensione tra desiderio e controllo, la pulsione vitale di sognatori ribelli che non rifiutano di piegarsi nonostante tutto. Agostino, Nina e Giovanni si troveranno in mezzo al nulla, solo pietre, grigio e polvere (la fotografia del film molto bella è di Roberto Cimatti) per riprendersi ciò che gli è negato, il diritto elementare della luce. E insieme a loro anche il film abbandona gli elementi narrativi per divenire suono, il rimbombo del martello sulle pietre, grida, fatica, dolore, mani che sanguinano fino al finale commuovente di una conquista che non è scontata. E di un cinema unico, sempre più raro, che sfugge alle mode e alle definizioni continuando a rivendicare l’unicità del proprio sguardo.