È come un pianeta alieno il centro Afghanistan, immerso tra le montagne e a ore di distanza da qualunque avamposto della civilizzazione per come noi la conosciamo. Il senso di scoperta che si prova vedendolo sullo schermo, in Wolf and Sheep di Shahrbanoo Sadat, è in parte simile a quello dell’autrice stessa quando a undici anni è partita da Teheran alla volta del piccolo villaggio nel cuore dell’Afghanistan dove i suoi genitori erano nati e cresciuti: «È stato come se mi avessero presa per mano e portata su un altro pianeta». Figlia di rifugiati che hanno vissuto in Iran per oltre quarant’anni prima di fare ritorno nel loro paese nel 2001 – «quando con l’arrivo delle truppe internazionali c’era la convinzione che le cose sarebbero migliorate», ricorda lei – Sadat è la prima regista donna afghana a presentare un suo film a Cannes, alla Quinzaine des Realisateurs.

I protagonisti di Wolf and Sheep sono due bambini: lei è l’outsider con cui nessuno vuole fare amicizia, lui l’unico ad avvicinarla senza dare ascolto alle storie che gli altri inventano sul suo conto. Intorno ci sono gli adulti, le loro vite quotidiane di pastori ma soprattutto le leggende raccontate dalla comunità per dare un senso agli eventi che turbano il normale scorrere dell’esistenza, come l’incursione di un lupo che uccide alcune pecore. Shahrbanoo Sadat, classe 1990, è la regista più giovane ad aver sviluppato il progetto del suo film, appena ventenne, nell’ambito della Cinefondation di Cannes. Per portarlo a compimento, però, ci sono voluti otto anni in totale. Le riprese di Wolf and Sheep dovevano infatti iniziare in Afghanistan due anni fa: «Il mio sogno era girarlo nel paese dove sono cresciuta», dice Sadat. Il 2014, però, è anno di elezioni in Afghanistan: «È stato un periodo terribile, tutti parlavano dei tentativi dei talebani di negoziare col governo, c’era ovunque una profonda paura. Ho passato molti mesi da sola, asserragliata nel mio appartamento e circondata dalle esplosioni mentre i miei familiari e i miei amici scappavano nei campi profughi».                                                                

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Ma lei è rimasta, nonostante la situazione peggiorasse quotidianamente. E alla fine ha dovuto giungere a un compromesso: girare il film nelle montagne del Tagikistan, portandosi dietro i 38 attori selezionati in oltre duemila provini fatti tra persone, e soprattutto bambini, provenienti dalla regione di cui la sua famiglia è originaria. «Ci sono voluti oltre sei mesi di contrattazioni all’ambasciata tagika per poter entrare nel paese, che nel frattempo aveva chiuso le frontiere con l’Afghanistan», ricorda. «La maggior parte dei miei attori non aveva documenti d’identità, e a molti di loro erano addirittura scomparse le impronte digitali a causa del duro lavoro nei campi. Abbiamo dovuto aspettare che si riformassero».

Per realizzare «Wolf and Sheep» ha dovuto attraversare molte difficoltà.
Ho deciso di seguire a tutti i costi il mio sogno: raccontare questa storia, che per me è così importante perché ci sono pochi film che raccontano la vita quotidiana in Afghanistan. Ho visto tutti i lavori che parlano del mio paese, anche se viene solo menzionato di sfuggita. Ma non ne ho mai trovati che raccontassero l’Afghanistan per come lo conosco io. E se lo fanno non sono in grado di rappresentarlo in maniera onesta, aderente alla realtà.

Da dove vengono le storie raccontate dai personaggi?
Dai sette anni trascorsi nel villaggio: passavo il tempo a raccogliere tutti i racconti che venivano fatti. Mi colpiva molto come le persone inventassero delle leggende per spiegarsi gli eventi che non riuscivano a capire, per trovare delle risposte. Loro stessi credono in questi racconti come se fossero fatti.

Una di queste leggende si materializza sullo schermo.
La storia della fata verde che spunta dalla pelle di un lupo è una delle più diffuse tra la gente del centro Afghanistan. Per me «avverarla» sullo schermo è stata una scelta quasi documentaristica, perché testimonia il pensiero delle persone. Anche i miei genitori ci credono: per loro è una parte della realtà. In quei luoghi c’è la convinzione di essere circondati da ogni sorta di entità magiche. Io sono cresciuta a stretto contatto con queste leggende dato che mio nonno era una sorta di sciamano che parlava con gli spiriti.

Anche dopo la fine del film ha deciso di restare a Kabul. Com’è la vita lì per una donna regista?
Non posso parlare, camminare, urlare quando mi pare. Non posso sedere da sola in un bar, né viaggiare per conto mio: ci deve sempre essere un uomo con me. Ma soprattutto alle donne non è consentito avere un sogno. Ciononostante credo che le vere vittime in Afghanistan siano gli uomini, che neanche si rendono conto di quanto le loro vite siano miserabili. Molti registi hanno lasciato il paese e fanno i loro film altrove, magari occupandosi di rifugiati, e li capisco. Ma io ho scelto di restare, perché raccontare l’Afghanistan è il mio sogno e lo voglio seguire. Anche se devo fare finta di essere una maestra o un’insegnante, perché fare cinema non è un lavoro rispettabile. E anche se nessun giornale afghano ha parlato della mia presenza a Cannes: per loro non ha nessuna importanza.